Citando James E. Overland, ricercatore della NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration), il 24 dicembre è apparso sul sito del quotidiano ‘La Repubblica’ un articolo dal titolo inequivocabile: ‘Inverni sempre più freddi perché il pianeta si riscalda’. La tesi viene riassunta così: «L’area artica si sta riscaldando come in nessuna altra parte del pianeta… Ciò causa una variazione sulla pressione atmosferica al Polo Nord che a sua volta determina una variazione della circolazione atmosferica che porta venti freddi a scendere verso sud. Ciò fa sì che inverni freddi e nevosi diverranno la norma piuttosto che l’eccezione. E tutto ciò è determinato dalla perdita di ghiacci che si sta verificando in prossimità del polo boreale».
La curva di fine 2010 della superficie glacializzata del Mare Artico misurata dal satellite, già ai minimi dal 2002, la scorsa settimana ha mostrato un’ulteriore, brusca variazione negativa (dati in milioni di kmq):
15 dicembre 11,411
16 dicembre 11,409 (-0,002)
17 dicembre 11,367 (-0,042)
18 dicembre 11,355 (-0,012)
19 dicembre 11,317 (-0,038)
23 dicembre 11,549
In quattro giorni è venuta meno un’ampiezza pari al nord Italia dalla Liguria al Friuli Venezia Giulia (recuperata tra il 20 e il 21 dicembre). A parere di Overland, sarebbe proprio il rilascio di calore da queste aree deglacializzate a favorire nuovi pattern atmosferici. È sintomatico notare come lo sviluppo meridiano delle correnti, causa di repentine variazioni termiche di cui anche l’Italia è stata oggetto nelle ultime settimane, stia interessando pure gli antipodi. Alla base russa Vostok, sul Plateau Antartico, il 2 dicembre si è toccata una minima di -50,1 °C mai sperimentata in oltre mezzo secolo di osservazioni; eccezionali valori si sono mantenuti sino all’8 dicembre, per poi improvvisamente virare su temperature insolitamente elevate: il 13 dicembre la massima ha segnato -19,4 °C, un dato che non si raggiungeva dal 9 gennaio 2006 (-18,8 °C quel giorno). Quello di Vostok non è stato un episodio locale, poiché analoghi andamenti si sono verificati in altre basi e stazioni automatiche, su un’area vasta più dell’Europa continentale. E si potrebbe continuare con gli esempi, spostando l’attenzione alla Penisola Antartica, oppure alle regioni costiere antartiche fra gli oceani Indiano e Pacifico.
È un fatto che, nell’ultimo decennio e oltre, la maggioranza degli indici teleconnettivi sia tendenzialmente rimasta in range favorevoli all’incremento delle temperature marine superficiali, con conseguente risalita del fronte di convergenza intertropicale; ciò può essere dipeso da svariati fattori, forse interagenti. I sostenitori del Global warming sono certi che la causa risieda nell’aumento dei cosiddetti gas serra di origine antropica; alcuni climatologi sono invece più propensi a individuare ciclicità nella dinamica atmosferica, sostenendo che l’attuale fase di estremizzazione termica (e di tutti i fenomeni meteorologici che ne conseguono) rappresenti il segnale di inversione del trend ascendente. C’è poi l’ala che guarda all’attività solare quale unico motore delle variazioni climatiche; questo fronte è notevolmente cresciuto negli ultimi anni, per via delle singolarità che hanno accompagnato l’esordio del ciclo 24. Fra il 18 e il 21 dicembre il SIDC (Solar Influences Data Analysis Center), l’ente belga che coordina una rete di osservatori mondiali dediti al monitoraggio del Sole, ha registrato (ufficiosamente) quattro giorni senza macchie, che si aggiungono agli 811 già in archivio dal principio della transizione fra i cicli 23/24.
In questi mesi il Sole sta senza dubbio attraversando la fase più quieta degli ultimi ottant’anni, ed è possibile che ciò possa avere qualche risvolto sulle vicende del clima terrestre; tuttavia va detto che, nell’intento di contrastare le storture ideologiche derivanti dalla teoria del Global warming, da più parti si stanno attribuendo a questo ciclo solare caratteristiche che non possiede. Nei giorni scorsi, a fronte degli Spotless days di cui si è fatto cenno, c’è chi si è affrettato a parlare di eccezionalità; ma nel settimo anno dall’avvio della transizione, il confronto con alcuni cicli del passato smentisce questa affermazione (giorni senza macchie registrati nell’anno indicato in prima colonna):
1856 (cicli 9/10, inizio 04.04.1850): 261 giorni
1902 (cicli 13/14, inizio 10.11.1895): 257 giorni
1914 (cicli 14/15, inizio 26.03.1908): 153 giorni
2010 (cicli 23/24, inizio 27.01.2004): 44 giorni (fino al 25.12)
I fan del Sole si spingono a paragonare il ciclo 24 a una parentesi di debolezza quale fu il Minimo di Dalton (1798-1823), o di profonda quiescenza come il Minimo di Maunder (1645-1715), usando soprattutto l’argomento del Solar flux, l’indice che misura tutte le regioni attive sul Sole, non solo quelle che producono macchie. Ma se è vero che nel ciclo attuale il Solar flux mostra i valori medi più bassi mai osservati, va pure aggiunto che il suo utilizzo risale al 1954 (esordio del ciclo 19): che ne sappiamo, dunque, di quali livelli raggiunse nei cicli precedenti? Come si possono attribuire sigilli d’eccezionalità a fenomeni la cui conoscenza è basata su dati tanto parziali? L’unico indice solare storicamente attendibile è il conteggio delle macchie validato dal SIDC, poiché l’analogo tenuto dalla NOAA è limitato nel tempo. Ebbene, se al di là della contemporaneità, connessioni esistono fra Piccola età glaciale e Minimo di Maunder, non è pensabile che il ciclo 24 possa replicare quegli eventi; semmai, esso può rappresentare lo stop al prolungato surplus di energia solare che la Terra avrebbe ricevuto negli ottant’anni precedenti, contraddistinti da un’attività solare molto elevata.
Ma, al di là delle cause primarie, che la ricerca è ancora lontana dall’aver individuato, la schizofrenia di cui pare soffrire il clima su scala planetaria, col repentino alternarsi di periodi intensamente freddi ad altri insolitamente caldi, è possibile sia generata proprio dalla necessità d’un riequilibrio termico; il venir meno della zonalità insomma, non dipenderebbe da alcuna variazione climatica globale, come invece sostiene il titolo di ‘Repubblica’, ma sarebbe piuttosto la strategia con cui un sistema caotico tende a ridistribuire l’energia al proprio interno (che è la lettura più genuina della tesi di Overland, almeno per la parte riportata sul sito del quotidiano), in un gioco a somma zero forse destinato a durare anni.
Nota: James E. Overland è il capo (division leader) della ‘Coastal and Arctic Research Division’, al ‘Pacific Marine Environmental Laboratory’ della NOAA; la sua tesi, esposta di recente a Oslo, è la prosecuzione d’uno studio comparso in ‘Geophysical Research Letters’ nell’aprile 2009 (coautore Muyin Wang).