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Sulle strade della fine del mondo: in auto nell’inverno della Patagonia

di Redazione Mtg
16 Set 2014 - 15:34
in Senza categoria
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sulle strade della fine del mondo in auto nell inverno della patagonia 33932 1 1 - Sulle strade della fine del mondo: in auto nell'inverno della Patagonia
sulle strade della fine del mondo in auto nell inverno della patagonia 33932 1 1 - Sulle strade della fine del mondo: in auto nell'inverno della Patagonia

Report scritto in occasione dell’inaugurazione della mostra fotografica “Patagonia, viaggio alla fine del mondo” che si terrà il 27 settembre alle ore 19,30 alla libreria La Fenice di Carpi (Mo).
Di Aldo Meschiari.

L’auto sfreccia a cento all’ora sulla strada asfaltata, a due passi dal confine con il Cile, nel bel mezzo della tundra patagonica. Ho appena abbandonato una carrabile buona più per i muli o per i guanacos, i simpatici lama patagonici. Sono felice: a breve sarò a Puerto Natales, praticamente in Tierra del Fuego. La parte più difficile del viaggio è terminata. E mentre penso così, proprio mentre lo penso, appare dal nulla un’enorme buca nell’asfalto, una voragine degna dei terremoti patagonici, scura come è scura la notte della ragione, che inghiotte la mia povera ruota sinistra e la stritola in un abbraccio mortale.
E in pochi secondi mi ritrovo con una gomma fracassata nel bel mezzo del deserto di ghiaccio argentino. Se non altro ho salvato la pellaccia, con una manovra davvero notevole, lo devo ammettere. Ma la visione della tundra congelata che fino a un minuto fa mi riempiva il cuore di stupore, ora mi suscita una strana nausea, la voglia di vomitare fuori la paura. E adesso? Sa faghia? La temperatura nel pomeriggio invernale scende velocemente. Ovviamente il cellulare non prende, e come potrebbe qui nella terra di nessuno?
E dal nulla esce un omino. Un elfo? Ma ci sono gli elfi in Patagonia? In uno strano idioma mi fa capire che bisogna cambiare la ruota e che mi avrebbe aiutato. In silenzio lavoriamo per una mezzoretta, insieme, come fossimo vecchi amici. Alla fine la ruota è cambiata, lo gnomo ritorna silenziosamente alle sue occupazioni. Io rimango esterrefatto. Non ha voluto neppure un gracias? Mi avvicino, gli dico amigo, muchas gracias, gli do un po’ di pesos e come tutti gli elfi li accetta ballando come un bambino. La Patagonia, la parte meridionale dell’Argentina e del Cile, è anche questo. Nel mio idioma emiliano-veneto-ispanico non incontro mai problemi di comunicazione. La gente è povera, forse, ma molto aperta, gentile e disponibile. “Te gusta la Patagonia?” “Sì, me piase mucho!”. Che ci vuole?

Quando sono sceso dall’aereo, dopo circa due giorni di viaggio, sono stato scaraventato nel bel mezzo dell’inverno patagonico, a El Calafate, la cittadina del Perito Moreno, forse il ghiacciaio più famoso al mondo. Aveva appena nevicato, le strade erano ghiacciate, perché qui gli spazzaneve sono come i topless in Iran. E poi le auto hanno ruote chiodate, e si va che è una bellezza. Dopo due ore di strada ghiacciata e innevata, mi appare l’incredibile sagoma del Moreno. Si tratta di un fenomeno naturale unico; nonostante abbia visto quasi tutti i più importanti ghiacciai artici, il Moreno possiede un fascino particolare. Sarà perché si trova, in tutta la sua imponenza, a latitudini non troppo elevate (la stessa, per intenderci, nell’Emisfero Nord, di Praga) e quindi inserito in un paesaggio per niente simile all’artico, tra faggi e altri alberi a foglia larga; sarà per il suo caparbio avanzare nonostante il Global Warming; sarà per il suo caratteristico ruggito, ogniqualvolta si stacca un seracco nel lago, il che avviene molto di frequente. Non saprei, ma di certo l’impressione è di essere al cospetto di qualche arcaico dio naturale, nei confronti del quale occorre avere rispetto e timore.

Quando mi trovo a poche decine di chilometri dal paesino montano di El Chaltén, la steppa viene avvolta progressivamente da una nebbia scura che avanza da ovest: mi rendo conto che il tempo sta cambiando velocemente. Il sole così acceso sino a pochi minuti prima viene travolto da imponenti ammassi nuvolosi provenienti dall’Oceano Pacifico. E nel giro di un attimo vedo i primi cristalli di neve scendere nella brughiera. Avanzando verso El Chaltén, il paese dei mitici massici del Fitz Roy e del Cerro Torre, la nevicata si trasforma in bufera. Entro finalmente nel paese sotto la tormenta, e inizio titubante a cercare il mio albergo. Sulla strada innevata poche auto e poche persone immerse nella bufera. Trovo il mio albergo, finalmente, e posso dedicarmi alla mia vera passione. Prendo la mia Nikon e inizio a fotografare quella che sta diventando l’unica nevicata della mia vita accaduta l’1 agosto!

E’ mattina presto quando mi avvio in direzione del secondo grande parco nazionale della Patagonia, il famoso Torres del Paine, nello stato del Cile. Le torri in questione sono delle splendide montagne che possono ricordare le nostre Dolomiti: un sorta di Cime di Lavaredo in versione patagonica. Stranamente per la stagione non fa freddo e guidando verso il parco non trovo quasi neve, solo tanto ghiaccio nei torrenti, nei fiumi e negli stagni. Questo inverno in Patagonia è stato mite e poco nevoso, a detta sia degli argentini che dei cileni. I colori sono quelli di un autunno appenninico, possono ricordare i larici in novembre prima della prima neve o le brughiere sulle Alpi non appena le neve si è sciolta. Il giallo e il marrone si mischiano al bianco della poca neve ghiacciata e a quello dei fiumi congelati, mentre lo sfondo è dominato dai ghiacciai delle Ande meridionali. Accade però all’improvviso: lo scenario del massiccio del Paine si erge maestoso di fronte a me, mentre guido con attenzione sulla strada sterrata del parco. Emerge dalla tundra illuminato dal sole, mentre le nubi cupe e basse avvolgono tutta la brughiera. Il resto sono solo emozioni e sensazioni visive. I suoni sono quelli degli spazi infiniti della natura selvaggia. L’unica auto che si sposta nel parco è la mia. L’unico essere umano che i guanacos osservano divertiti sono io.

Alla frontiera, rimango bloccato per quasi un’ora tra la dogana argentina e quella cilena, per mille questioni burocratiche. Alla faccia di chi rivorrebbe gli stati e non l’Europa unita. Mentre attendo impaziente e un po’ ansioso davanti all’ufficio, un giovanissimo soldato argentino mi elenca tutti i calciatori italiani che conosce, e li conosce proprio tutti, cavolo. A ogni nuovo nome dobbiamo esclamare insieme: eh bueno!

Quella mattina la tundra patagonica era così ghiacciata che senza occhiali da sole sarebbe stato impossibile guidare. E dovete credermi che quando la vidi, pensai a una specie di miraggio indotto dal troppo caffè e dal ghiaccio steppico. Invece era una ragazza biondissima, che nel bel mezzo del deserto gelato faceva bellamente l’autostop! “Ma che ci fai qui, in mezzo alla tundra?” “Niente, aspetto che qualcuno mi dia un passaggio per El Calafate”. “Ah, ok, allora niente di strano”.
Era una ragazza di 25 anni tedesca, della Baviera. Girava la Patagonia in autostop, in pieno inverno, per risparmiare. “Ma scusa, non hai paura?”. “Eh di cosa? Qui fanno i macho, ma alla fine sono dei bambinoni! E poi è giunto il momento di arrangiarmi, oramai ho finito l’università!”. E io pensai ai miei studenti italiani e alle loro vacanze a Ibiza…

Il terzo giorno di viaggio sono arrivato, con la mia Gol (attenzione, senza la f, e vi assicuro che una f può fare la differenza) al posto di controllo del Parque Nacional de los Glaciaeres, sulla strada ghiacciata che portava al Perito Moreno. Sono usciti infreddoliti due ragazzotti argentini, ai quali per ignoranza dello spagnolo ho iniziato a parlare in inglese. Loro tacevano: erano attentissimi a scrutare le mie ruote. Oramai parlavo da diversi minuti, cercando di capire le loro intenzioni, quando il più alto e secco mi disse che non parlava inglese. Allora ho sfoderato il mio emilian-veneto-spagnolo. Lui mi ha guardato con gratitudine e mi ha detto: “Ah, italiano!” Ac sòm, ho pensato. Naturalmente aveva origini italiane, piemontesi addirittura. Mi ha chiesto dei clavos, io ho pensato attonito perché volesse le mie chiavi. Poi si è inchinato, ha indicato la ruota prima di prorompere in un’espressione di soddisfazione. “Muy bien, tienes los clavos (i chiodi, ndr), amigo! Buen viaje!”

I villaggi e le città patagoniche sono piene di cani randagi. Di tutte le razze e di tutti gli incroci. Ma anche di una tristezza e di una bontà infinite. Soprattutto di sera scelgono una persona, e se questa dà buoni segnali, iniziano a seguirla per tutto il paese. Le prime volte gli portavo un po’ di pane. Ma poi ho capito che non bastava. Ho provato con i resti della colazione. Non bastava. Ho tentato addirittura con una salciccia. Niente. Alla fine, da buon umano sempliciotto, ho capito. Una carezza, tante carezze…

Aldo Meschiari

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