Nel 1964, il giorno 27 marzo, un gigantesco terremoto, di magnitudine Richter pari a 9,2, il secondo più forte terremoto da quando esistono registrazioni ufficiali, sconvolse l’Alaska, provocando 114 vittime, ma anche una serie di onde di tsunami, dell’altezza di 12,7 metri, che si propagarono sul Golfo dell’Alaska e sulle coste della British Columbia, raggiungendo anche le coste statunitensi settentrionali dello Stato di Washington, ma le onde si sono spinte perfino alla California meridionale.
Tale tsunami provocò direttamente 35 vittime.
Uno tsunami si verifica quando un terremoto provoca un improvviso cedimento di un vasto fondale sottomarino, come successe nel Dicembre 2004 in Indonesia, oppure anche quando una frana di grandi proporzioni si getta in mare, provocando la formazione di onde altissime (come successo, di recente, sull’Isola di Stromboli), oppure da un’eruzione sottomarina.
L’effetto dello tsunami è quasi inavvertibile al largo nell’Oceano, dove le onde sono di altezza scarsa (poche decine di cm), ma l’altezza dell’onda cresce avvicinandosi alla terraferma, dove possono divenire alte fino a 30 metri una volta raggiunta la linea costiera.
Un team di scienziati, finanziati dalla NASA, dalla National Science Foundation e dalla US Geological Survey, ha esaminato gli strati di sedimenti su vari siti costieri dell’Alaska per gli ultimi duemila anni.
La scoperta che hanno fatto fa rabbrividire: sono state trovate tracce di eventi di terremoti di almeno il 15% più grandi della zona interessata da quello del 1964.
Due terremoti di portata superiore a quello sono avvenuti in Alaska negli ultimi 1500 anni, per cui la probabilità che si possano ripetere entro breve tempo è piuttosto elevata.
La rottura contemporanea di due faglie sottomarine potrebbe comportare la formazione di un gigantesco maremoto, che andrebbe ad interessare tutta la costa del Pacifico dall’Alaska fino alla California, con conseguenze difficilmente calcolabili, in quanto l’altezza delle onde varierebbe moltissimo in conseguenza della diversa esposizione e conformazione delle linee costiere.
La proposta è dunque quella di aumentare il sistema di allerta lungo tutta questa fascia, che potrebbe essere maggiormente a rischio di quanto prima ipotizzato.