E’ un paio di giorni che a Roma piove con la P maiuscola, d’altronde siamo in primavera e quindi non ce né da stupirsi più di tanto ed oggi poi mi sono ritagliato una giornata solo per me e soprattutto senza Alvaro. Il tempo è discreto e voglio farmi una bella passeggiata a Lungotevere per vedere il biondo fiume infagottare i piloni di ponte Garibaldi, rigirarsi sotto sopra, sbuffare sullo scalino all’Isola Tiberina, sfrattare persone ed animali dalle sue sponde solitamente percorribili e correre come un forsennato verso Ostia e Fiumicino.
Ho reminescenze mentali che mi fanno tornare alla memoria quel rumore, così sordo e devastante, di quel fiume che attraversa la mia regione d’origine, quell’Arno sonnacchioso che volle anche lui visitare Firenze in una mattinata di tanti e tanti anni fa… ma lo stridere della sirena di un’autoambulanza mi riporta alla realtà. Una scaletta invita a passeggiare sulle rive del Tevere ma oggi di quella scaletta non ne resta molta alla luce del sole, le piogge hanno gonfiato le gote del nostro fiume che trasporta verso mare tutto ciò che trova sulla sua strada, che scende urlando e schiumando tra le alte mura che soffocano quella sua perversa voglia di far vedere a tutta Roma il suo regale passo ed il traffico vorrebbe ingabbiare quella voce ma non c’è nulla da fare. Dall’alto dei muretti la gente ogni tanto volge lo sguardo, guarda con sufficienza quella corsa e se ne torna sui suoi passi. Eppure c’è una foto, e lo dico per chi potesse capitare da quelle parti, in un piccolo chiosco a Ponte Milvio, una foto se non ricordo male dei primi del secolo, dove il Tevere tracimò inondando tutto il quartiere, se avrò l’occasione cercherò di portarla in rete. Comunque quella mattina ho deciso di fare alcune foto e così comincio a scendere i primi gradini del tratto di fronte all’Isola Tiberina. Noto che l’acqua è calata di qualche centimetro rispetto a 24 ore fa, lo si nota dai gradini sporchi di fango. Avanzo con molta circospezione gradino dopo gradino, un gabbiano mi passa sopra stridendo come se mi volesse avvertire a non proseguire. Ma la passione va oltre e senza accorgermene ho valicato il confine tra il senso di responsabilità e l’ignoto perché il livello dell’acqua si avvicina ed io continuo a scendere i gradini. L’ultimo mi sarà quasi fatale perché il fango si è fatto ancor più scivoloso. Voglio continuare a scendere ma sul terz’ultimo gradino perdo l’equilibrio, sbando e la prima cosa che mi viene in mente (che furbo che sono…!) è salvare la borsa con la Gilda e la l’Armanda (morta affogata nel 92 a causa di un volo a bassa quota di aironi sulle rive del Lago di Fogliano nel Parco Naturale del Circeo). Il movimento brusco e istantaneo mi salva quasi sicuramente la vita perché il gettare alle mie spalle della borsa mi riporta all’indietro….insomma fatto stà che mi ritrovo sdraiato sul fango del terz’ultimo gradino e non so neanche come. Sembro un minatore che torna in superficie ma non posso non fare alcune foto. Mentre mi do una ripulita grazie ad una fontanella in cima alle scale penso che se c’era Alvaro avrebbe fatto anche di peggio.Ridiscendo nuovamente qualche gradino e faccio un po’ di scatti (compreso un autoritratto). E’ quasi l’ora di pranzo e faccio un salto a casa a cambiarmi, mangio un boccone e torno sul luogo del delitto. Erano anni che non mi facevo più a piedi lungotevere ed è una cosa meravigliosa. La sera mi trova all’altezza di Ponte di Castel S.Angelo. Lì sotto il biondo ancora corre e schiuma, ammiro ancora una volta questa sciarpa dorata che cinge Roma con il Cupolone a discreto guardiano. Me ne ritorno verso casa pensando all’Antonello Venditti che cantava nella sua Roma Capoccia: “…quanto sei bella Roma quanno piove… “