La foto, scattata da Giovanni Staiano il 28 luglio 1996, mostra con grande evidenza le numerose grosse frane sui versanti boscosi delle montagne. “La Nazione” di venerdì 21 giugno 1996 titolava “Cardoso, il paese che non c’è più”. E in effetti di questo piccolo paese di circa trecento abitanti, che aumentavano in estate per la presenza di qualche villeggiante e il rientro nelle seconde case di molti paesani emigrati a valle, dopo l’alluvione rimaneva ben poco.
Cardoso, pur piccolo, era abbastanza noto per la presenza di numerosi laboratori artigianali per la lavorazione di un prodotto tipico della zona, la pietra del Cardoso appunto, caratteristica per il colore grigio scuro e abbondantemente usata come ornamento in edilizia. Il giorno dopo l’alluvione era un paese fantasma. La maggior parte degli abitanti era stata evacuata con gli elicotteri, qualcuno era morto (anche due bambini), case, strade, ponti, attività artigianali e commerciali erano state cancellate da una furia senza precedenti. Rimanevano in piedi solo la vecchia chiesa parrocchiale e poche case intorno ad essa, per il resto solo qualche muro diroccato e uno spesso strato di pietre, mentre dell’alveo originale del torrente non c’era più traccia, come pure lungo i circa 3 km tra Cardoso e Ponte Stazzemese. Franco Barberi, sottosegretario alla Protezione Civile, dichiarò “E’ un emergenza terribile; al di là dei morti, la cosa più grave è lo sconvolgimento totale di questa valle. Non sarà facile risistemare la zona”.
Molti mancavano all’appello quel giorno, ma parecchi furono “ritrovati” nei giorni seguenti. Si trattava di persone che avevano abbandonato le loro case per allontanarsi dal fondovalle prima che arrivasse l’ondata di acqua e sassi. Le vittime furono comunque 14, quasi tutte appunto a Cardoso.
Un volto simbolo della tragedia umana dell’alluvione fu quello del piccolo Alessio, 9 anni, il cui papà era dipendente dell’APT Versilia. Nelle convulse ore della tarda mattinata del 19 la mamma di Alessio, che era andata con il bambino e la cognata a trovare i genitori a Cardoso, aveva parlato al telefono col marito, al lavoro sulla costa, descrivendogli l’inferno che si era scatenato intorno al paese. Preoccupato, egli aveva deciso di raggiungere i familiari, ma era stato fermato dalle interruzioni stradali. Perso anche il contatto telefonico con Cardoso, cominciò a temere il peggio. Durante l’evacuazione del paese, il 20 giugno, attese invano, a Querceta, che dagli elicotteri che facevano la spola con l’epicentro della tragedia spuntasse il volto di qualcuno dei suoi cari. Il corpicino di Alessio fu trovato vari giorni dopo nello sgombero di un capannone alluvionato di Ruosina, dove si era accumulata una quantità enorme di detriti, soprattutto legname.
Oltre ad Alessio, vi fu un’altra piccola vittima, Giulia, di 4 anni, il cui corpicino fu ritrovato a Portovenere. Dove sorgeva la sua casa, praticamente alla confluenza dei canali Capriola e Versiglia, dopo l’alluvione c’era solo una montagna di pietre e una mano pietosa volle issare una semplice croce di legno mettendovi a fianco un orsacchiotto della bambina, ritrovato a breve distanza, a ricordo della vittima più giovane della tragedia.
Il 20 giugno l’allora presidente della Regione Toscana, Chiti, effettuò un sorvolo in elicottero della zona disastrata, con gli assessori Giannarelli e Fontanelli (quest’ultimo divenne poi commissario straordinario per la ricostruzione) e il prefetto di Lucca. Mi paiono particolarmente significative le dichiarazioni di Giannarelli (versiliese, già sindaco di Seravezza), che disse “La valle del Cardoso non esiste più; è un ammasso di ghiaia e melma, un mare di fango. Il corso del fiume è stato stravolto. E tutto attorno, le pareti della montagna hanno uno strano aspetto, come se qualcuno le avesse grattate”.
Mi soffermo su quest’ultima frase perché queste “grattate” colpirono molto anche me, sia quando andai per la prima volta nella zona, sabato 29 giugno, al seguito di una squadra di soccorso organizzata internamente all’Azienda dove lavoravo (e lavoro tuttora), sia, anzi soprattutto, quando per la prima volta potei osservare buona parte dell’area sinistrata dall’alto. Il 28 luglio 1996 infatti salii dall’Albergo Alto Matanna alla vetta del Monte Nona. I sentieri del versante versiliese erano tutti impraticabili, interrotti in più punti dalle frane, quindi per fare due passi e contemporaneamente avere una visione d’insieme del disastro si poteva salire solo dal versante garfagnino, in una zona che non aveva subito danni significativi.
Cardoso, in basso, nel fondovalle e Pruno e Volegno rialzati, sulla sinistra; i Monti Corchia, in alto a destra, e Altissimo, sullo sfondo, caratterizzato da un grande ravaneto. Foto di Giovanni Staiano scattata il 28 luglio 1996. Quello che vidi dalla vetta del Nona (m 1297, Cardoso è lì sotto, vicina in linea d’aria, ma oltre 1000 metri più bassa) in quella soleggiata domenica mi lasciò sconvolto. I versanti boscosi rivolti verso il mare di Nona, Matanna, Forato e quelli rivolti a nord di Gabberi e Lieto erano verdissimi in quell’estate piuttosto fresca e anche troppo piovosa (come accennato anche dopo l’alluvione le piogge non mancarono nell’area) e le “unghiate” delle grandi frane che avevano portato allo scoperto la terra erano impressionanti, sia per la dimensione che per il loro numero. Grosse frane erano visibili anche sui pendii sottostanti la Foce di Mosceta, ai piedi di quella Pania della Croce, dove erano invece ben visibili, in modo direi inquietante da quella distanza così breve, le profonde “rigate” lasciate dalle scariche di pietre che si erano rovesciate verso Fornovolasco, sul lato orientale del crinale principale.
Come sempre accade in coincidenza con eventi tragici che hanno grande risonanza presso l’opinione pubblica, anche l’alluvione versiliese innescò subito polemiche politiche. Già il 20 giugno infatti, intervenendo alla Camera, il ministro dell’Ambiente, il verde Ronchi, aveva sparato a zero sulla cattiva gestione del territorio toscano, affermando quanto riportiamo di seguito in corsivo
Questa tragica vicenda non è imputabile alla fatalità, ma all’incuria e a una politica di prevenzione nella protezione dai rischi di simili eventi, che ancora non è decollata.
La catena alpina e la dorsale appenninica hanno versanti montani e collinari molto fragili: quando piove con insistenza i torrentelli assumono carattere torrentizio impetuoso. In passato una manutenzione accurata dei terrazzamenti e dei muretti a secco ha saputo rallentare la propensione al dissesto e regolato lo scorrere dell’acqua verso valle. Poi tutto è stato abbandonato: i contadini hanno lasciato la collina attratti dai guadagni più facili nel fondovalle.
La replica di Chiti non si fece attendere. Il presidente regionale, facendo notare la quantità spaventosa di acqua caduta, anche confrontando l’accumulo con quelli delle alluvioni del 1966 a Firenze e del 1994 in Piemonte, affermò:
Le dichiarazioni di Ronchi sono frutto della mania di protagonismo. Di fronte a catastrofi immani come quella che ha colpito Versilia e Garfagnana e ai morti, le polemiche sono inopportune.
Qui siamo di fronte a dichiarazioni estemporanee, fatte da chi mostra di non conoscere la zona, né la gravità dell’evento. Né ha voluto verificare di persona prima di parlare.
A mio parere avevano ragione entrambi: l’evento fu assolutamente eccezionale e male fece Ronchi a parlarne senza cognizione di causa, però interventi umani inopportuni sul territorio hanno sicuramente amplificato gli effetti e i danni, sia umani che materiali.
Il presidente dell’Ordine dei geologi toscani, Nolledi, dichiarò infatti:
E’ venuta giù una quantità di acqua spaventosa e certamente è una cosa che lascia pensare. C’è chi sostiene che grande colpa ricade sui mutamenti climatici ma noi non possiamo certo soffermarci a queste considerazioni. C’è un altro aspetto che a mio avviso riveste particolare importanza: il fatto che a parità di pioggia caduta i danni sono sempre più gravi. Precipitazioni della stessa intensità, trenta, quaranta anni fa non producevano gli stessi marcati effetti che producono ora.
Fino a qualche decennio fa esistevano delle aree cosiddette di pertinenza dei corsi d’acqua occupate al massimo da terreni agricoli, tali da assorbire e frenare l’impeto dell’acqua. E’ ovvio che se noi vi costruiamo edifici, siano abitazioni o capannoni industriali, quell’effetto viene a morire con le conseguenze che possiamo immaginare.
Qualcuno ha costruito senza valutare a sufficienza l’assetto idrogeologico del territorio. Si sono concessi permessi per costruire nelle aree di pertinenza dei corsi d’acqua e non ci si deve meravigliare se poi i fiumi scendono a valle a valanga travolgendo tutto quel che trovano. Sono poi state abbandonate le opere di manutenzione delle fossette, dei boschi, non si è data sufficiente attenzione alla variazione dei terreni, con la scomparsa del vecchio terrazzamento sostituito con un terreno uniforme che aumenta ovviamente la velocità delle acque piovane.
Lo stesso Barberi, uomo di governo (allora) ma non politico di professione, fece notare come l’A12 fosse stata costruita senza tenere conto del reticolo di torrenti e torrentelli chiusi dai terrapieni e come molti tronchi d’albero fossero stati trovati già tagliati, probabilmente accumulati da qualcuno lungo le rive dei corsi d’acqua che li hanno poi trascinati a valle. Sempre Barberi, riguardo agli alberi divelti, sostenne l’opinione che le rive dei corsi d’acqua debbano essere tenute sgombre da alberi, che vengono poi sradicati dalle piene, con rischio del cosiddetto “effetto castoro”, ovvero della formazione di vere e proprie dighe.
Quanto all’incuria del bosco ricordo come, il 10 marzo di quell’anno, salendo proprio da Cardoso a un Monte Forato dove la neve era ancora alta, avevo notato l’enorme quantità di rami anche molto grossi che ingombravano il sottobosco, probabilmente in gran parte spezzati dalle grandi nevicate di quell’inverno, in particolare da quella pesantissima che scaricò oltre 1 metro di neve anche a bassa quota (sui 5-600 metri) intorno al 20 febbraio, ineguagliata, a quella quota, anche nel nevoso inverno 2003-2004. Conoscendo il territorio in questione mi ero posto il problema della potenziale pericolosità di tutto quel materiale in caso di forti piogge.
Prosegue…
Pubblicato da Giovanni Staiano
La foto, scattata da Giovanni Staiano il 28 luglio 1996, mostra con grande evidenza le numerose grosse frane sui versanti boscosi delle montagne. “La Nazione” di venerdì 21 giugno 1996 titolava “Cardoso, il paese che non c’è più”. E in effetti di questo piccolo paese di circa trecento abitanti, che aumentavano in estate per la presenza di qualche villeggiante e il rientro nelle seconde case di molti paesani emigrati a valle, dopo l’alluvione rimaneva ben poco. Cardoso, pur piccolo, era abbastanza noto per la presenza di numerosi laboratori artigianali per la lavorazione di un prodotto tipico della zona, la pietra del Cardoso appunto, caratteristica per il colore grigio scuro e abbondantemente usata come ornamento in edilizia. Il giorno dopo l’alluvione era un paese fantasma. La maggior parte degli abitanti era stata evacuata con gli elicotteri, qualcuno era morto (anche due bambini), case, strade, ponti, attività artigianali e commerciali erano state cancellate da una furia senza precedenti. Rimanevano in piedi solo la vecchia chiesa parrocchiale e poche case intorno ad essa, per il resto solo qualche muro diroccato e uno spesso strato di pietre, mentre dell’alveo originale del torrente non c’era più traccia, come pure lungo i circa 3 km tra Cardoso e Ponte Stazzemese. Franco Barberi, sottosegretario alla Protezione Civile, dichiarò “E’ un emergenza terribile; al di là dei morti, la cosa più grave è lo sconvolgimento totale di questa valle. Non sarà facile risistemare la zona”. Molti mancavano all’appello quel giorno, ma parecchi furono “ritrovati” nei giorni seguenti. Si trattava di persone che avevano abbandonato le loro case per allontanarsi dal fondovalle prima che arrivasse l’ondata di acqua e sassi. Le vittime furono comunque 14, quasi tutte appunto a Cardoso. Un volto simbolo della tragedia umana dell’alluvione fu quello del piccolo Alessio, 9 anni, il cui papà era dipendente dell’APT Versilia. Nelle convulse ore della tarda mattinata del 19 la mamma di Alessio, che era andata con il bambino e la cognata a trovare i genitori a Cardoso, aveva parlato al telefono col marito, al lavoro sulla costa, descrivendogli l’inferno che si era scatenato intorno al paese. Preoccupato, egli aveva deciso di raggiungere i familiari, ma era stato fermato dalle interruzioni stradali. Perso anche il contatto telefonico con Cardoso, cominciò a temere il peggio. Durante l’evacuazione del paese, il 20 giugno, attese invano, a Querceta, che dagli elicotteri che facevano la spola con l’epicentro della tragedia spuntasse il volto di qualcuno dei suoi cari. Il corpicino di Alessio fu trovato vari giorni dopo nello sgombero di un capannone alluvionato di Ruosina, dove si era accumulata una quantità enorme di detriti, soprattutto legname. Oltre ad Alessio, vi fu un’altra piccola vittima, Giulia, di 4 anni, il cui corpicino fu ritrovato a Portovenere. Dove sorgeva la sua casa, praticamente alla confluenza dei canali Capriola e Versiglia, dopo l’alluvione c’era solo una montagna di pietre e una mano pietosa volle issare una semplice croce di legno mettendovi a fianco un orsacchiotto della bambina, ritrovato a breve distanza, a ricordo della vittima più giovane della tragedia. Il 20 giugno l’allora presidente della Regione Toscana, Chiti, effettuò un sorvolo in elicottero della zona disastrata, con gli assessori Giannarelli e Fontanelli (quest’ultimo divenne poi commissario straordinario per la ricostruzione) e il prefetto di Lucca. Mi paiono particolarmente significative le dichiarazioni di Giannarelli (versiliese, già sindaco di Seravezza), che disse “La valle del Cardoso non esiste più; è un ammasso di ghiaia e melma, un mare di fango. Il corso del fiume è stato stravolto. E tutto attorno, le pareti della montagna hanno uno strano aspetto, come se qualcuno le avesse grattate”. Mi soffermo su quest’ultima frase perché queste “grattate” colpirono molto anche me, sia quando andai per la prima volta nella zona, sabato 29 giugno, al seguito di una squadra di soccorso organizzata internamente all’Azienda dove lavoravo (e lavoro tuttora), sia, anzi soprattutto, quando per la prima volta potei osservare buona parte dell’area sinistrata dall’alto. Il 28 luglio 1996 infatti salii dall’Albergo Alto Matanna alla vetta del Monte Nona. I sentieri del versante versiliese erano tutti impraticabili, interrotti in più punti dalle frane, quindi per fare due passi e contemporaneamente avere una visione d’insieme del disastro si poteva salire solo dal versante garfagnino, in una zona che non aveva subito danni significativi. Cardoso, in basso, nel fondovalle e Pruno e Volegno rialzati, sulla sinistra; i Monti Corchia, in alto a destra, e Altissimo, sullo sfondo, caratterizzato da un grande ravaneto. Foto di Giovanni Staiano scattata il 28 luglio 1996. Quello che vidi dalla vetta del Nona (m 1297, Cardoso è lì sotto, vicina in linea d’aria, ma oltre 1000 metri più bassa) in quella soleggiata domenica mi lasciò sconvolto. I versanti boscosi rivolti verso il mare di Nona, Matanna, Forato e quelli rivolti a nord di Gabberi e Lieto erano verdissimi in quell’estate piuttosto fresca e anche troppo piovosa (come accennato anche dopo l’alluvione le piogge non mancarono nell’area) e le “unghiate” delle grandi frane che avevano portato allo scoperto la terra erano impressionanti, sia per la dimensione che per il loro numero. Grosse frane erano visibili anche sui pendii sottostanti la Foce di Mosceta, ai piedi di quella Pania della Croce, dove erano invece ben visibili, in modo direi inquietante da quella distanza così breve, le profonde “rigate” lasciate dalle scariche di pietre che si erano rovesciate verso Fornovolasco, sul lato orientale del crinale principale. Come sempre accade in coincidenza con eventi tragici che hanno grande risonanza presso l’opinione pubblica, anche l’alluvione versiliese innescò subito polemiche politiche. Già il 20 giugno infatti, intervenendo alla Camera, il ministro dell’Ambiente, il verde Ronchi, aveva sparato a zero sulla cattiva gestione del territorio toscano, affermando quanto riportiamo di seguito in corsivo Questa tragica vicenda non è imputabile alla fatalità, ma all’incuria e a una politica di prevenzione nella protezione dai rischi di simili eventi, che ancora non è decollata. La catena alpina e la dorsale appenninica hanno versanti montani e collinari molto fragili: quando piove con insistenza i torrentelli assumono carattere torrentizio impetuoso. In passato una manutenzione accurata dei terrazzamenti e dei muretti a secco ha saputo rallentare la propensione al dissesto e regolato lo scorrere dell’acqua verso valle. Poi tutto è stato abbandonato: i contadini hanno lasciato la collina attratti dai guadagni più facili nel fondovalle. La replica di Chiti non si fece attendere. Il presidente regionale, facendo notare la quantità spaventosa di acqua caduta, anche confrontando l’accumulo con quelli delle alluvioni del 1966 a Firenze e del 1994 in Piemonte, affermò: Le dichiarazioni di Ronchi sono frutto della mania di protagonismo. Di fronte a catastrofi immani come quella che ha colpito Versilia e Garfagnana e ai morti, le polemiche sono inopportune. Qui siamo di fronte a dichiarazioni estemporanee, fatte da chi mostra di non conoscere la zona, né la gravità dell’evento. Né ha voluto verificare di persona prima di parlare. A mio parere avevano ragione entrambi: l’evento fu assolutamente eccezionale e male fece Ronchi a parlarne senza cognizione di causa, però interventi umani inopportuni sul territorio hanno sicuramente amplificato gli effetti e i danni, sia umani che materiali. Il presidente dell’Ordine dei geologi toscani, Nolledi, dichiarò infatti: E’ venuta giù una quantità di acqua spaventosa e certamente è una cosa che lascia pensare. C’è chi sostiene che grande colpa ricade sui mutamenti climatici ma noi non possiamo certo soffermarci a queste considerazioni. C’è un altro aspetto che a mio avviso riveste particolare importanza: il fatto che a parità di pioggia caduta i danni sono sempre più gravi. Precipitazioni della stessa intensità, trenta, quaranta anni fa non producevano gli stessi marcati effetti che producono ora. Fino a qualche decennio fa esistevano delle aree cosiddette di pertinenza dei corsi d’acqua occupate al massimo da terreni agricoli, tali da assorbire e frenare l’impeto dell’acqua. E’ ovvio che se noi vi costruiamo edifici, siano abitazioni o capannoni industriali, quell’effetto viene a morire con le conseguenze che possiamo immaginare. Qualcuno ha costruito senza valutare a sufficienza l’assetto idrogeologico del territorio. Si sono concessi permessi per costruire nelle aree di pertinenza dei corsi d’acqua e non ci si deve meravigliare se poi i fiumi scendono a valle a valanga travolgendo tutto quel che trovano. Sono poi state abbandonate le opere di manutenzione delle fossette, dei boschi, non si è data sufficiente attenzione alla variazione dei terreni, con la scomparsa del vecchio terrazzamento sostituito con un terreno uniforme che aumenta ovviamente la velocità delle acque piovane. Lo stesso Barberi, uomo di governo (allora) ma non politico di professione, fece notare come l’A12 fosse stata costruita senza tenere conto del reticolo di torrenti e torrentelli chiusi dai terrapieni e come molti tronchi d’albero fossero stati trovati già tagliati, probabilmente accumulati da qualcuno lungo le rive dei corsi d’acqua che li hanno poi trascinati a valle. Sempre Barberi, riguardo agli alberi divelti, sostenne l’opinione che le rive dei corsi d’acqua debbano essere tenute sgombre da alberi, che vengono poi sradicati dalle piene, con rischio del cosiddetto “effetto castoro”, ovvero della formazione di vere e proprie dighe. Quanto all’incuria del bosco ricordo come, il 10 marzo di quell’anno, salendo proprio da Cardoso a un Monte Forato dove la neve era ancora alta, avevo notato l’enorme quantità di rami anche molto grossi che ingombravano il sottobosco, probabilmente in gran parte spezzati dalle grandi nevicate di quell’inverno, in particolare da quella pesantissima che scaricò oltre 1 metro di neve anche a bassa quota (sui 5-600 metri) intorno al 20 febbraio, ineguagliata, a quella quota, anche nel nevoso inverno 2003-2004. Conoscendo il territorio in questione mi ero posto il problema della potenziale pericolosità di tutto quel materiale in caso di forti piogge. 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