A solo un giorno di distanza dal terribile terremoto che ha colpito L’Aquila e i paesi ad essa limitrofi, fioccano già le polemiche sulla mancata previsione di questo evento catastrofico. In questo articolo cercheremo di fare chiarezza sui progressi in questo difficile ma importantissimo campo della scienza predittiva.
Diciamo innanzitutto che i metodi di previsione di un terremoto, al momento, sono tutti allo stato sperimentale, e non esiste un metodo sicuro che sia accettato dalla comunità scientifica internazionale.
Il modo più sicuro di prevedere un terremoto è quello di prendere una casistica delle scosse verificatesi in una certa località negli ultimi 100, 200, o addirittura mille anni, osservare la loro eventuale periodicità, e l’intensità di ciascuna scossa passata.
E’ possibile in questo modo prevedere approssimativamente quando un terremoto possa colpire una certa zona, e la possibile intensità della scossa, ma con larghissima approssimazione, sia per la localizzazione, sia per la sua potenza.
Questi dati sono invece indispensabili per costruire le cosiddette “mappe di rischio sismico”, che individuano le zone maggiormente esposte al rischio di terremoto, grazie alle quali si possono introdurre elementi legislativi (che obblighino la costruzione di edifici antisismici), e preparare anche eventuali piani di Protezione Civile.
Insomma, la migliore previsione per un terremoto è la sua prevenzione nelle zone a rischio.
Sappiamo infatti che, anche la zona colpita dal fortissimo terremoto abruzzese, è stata sovente, in passato, interessata da terremoti disastrosi (come quello celebre di Avezzano del 13 Gennaio 1915).
Ma passiamo adesso ai metodi “sperimentali” più diffusi, per una previsione più precisa su questo fenomeno.
Anzitutto, possiamo immaginare la Terra non come un insieme solido e compatto, ma come una sorta di crosta galleggiante su di un liquido viscoso.
Per un’immagine più semplificata, possiamo immaginare delle croste di pane galleggianti sopra l’acqua bollente: esse si spostano e si scontrano continuamente tra di loro.
Da questi scontri e spostamenti relativi delle varie “zolle”, nascono le catene montuose, i vulcani, ed anche i terremoti.
Le rocce sotterranee, sottoposte a continui sforzi di tensione e di spostamento (come avviene lungo la nostra Catena Appenninica), tendono a spostarsi bruscamente liberando la loro energia sotto forma di onde, che si propagano in modo sferico dal centro del terremoto (ipocentro).
L’accumulo di tensione tra le rocce, può provocare, prima dell’evento, la liberazione di gas radon, un gas radioattivo presente nel sottosuolo, attraverso microfratture nella crosta terrestre.
L’aumento della concentrazione di questo gas potrebbe allora essere un indice di un forte terremoto in arrivo, soprattutto se accompagnata da microscosse che potrebbero precedere l’evento.
L’esame dei sismogrammi di una certa località a rischio, continuamente monitorati, potrebbe evidenziare delle anomalie nei tracciati, con un aumento della frequenza ed intensità delle microscosse, non avvertibili dalla popolazione.
Ed anche questo potrebbe essere un segnale indicante una possibile scossa forte in arrivo.
Tuttavia, questi due metodi presentano ancora molti margini di incertezza, tanto che non si è ancora in grado di indicare con precisione il momento in cui si possa verificare un grande terremoto, magari possono passare mesi o anni oppure accadere in zone limitrofe non previste.
Insomma, non si tratta di metodologie sicure, anche se bisogna dire che la ricerca in questo campo si sta facendo sempre più serrata.
Seconda parte:
https://www.meteogiornale.it/news/read.php?id=19952