I dati sismici, gravimetrici e magnetici hanno permesso agli studiosi dell’INGV un’attenta riscostruzione delle immagini del sottosuolo dell’Etna per capire la localizzazione ed il movimento delle faglie, alla ricerca di quelle condizioni che hanno permesso al magma di risalire in superficie.
L’area in cui sorge l’Etna si sviluppa in una zona di faglie “trascorrenti” (cioè con movimenti orizzontali). I ricercatori Ingv, con la mappatura del sottosuolo, hanno dimostrato che a causare la risalita del magma risulta essere la presenza di una faglia tra Acireale e Adrano.
Già a partire da 500 mila anni fa l’attività tettonica di un’ampia zona di faglia nella parte meridionale del vulcano (tra Acireale e i dintorni di Adrano) ha portato alla formazione di zone di “apertura” della crosta terrestre. Queste fessure hanno caratterizzato le prime fasi dell’attività etnea.
La continua deformazione lungo la stessa zona di faglia e poi anche più a nord, nonché la loro reciproca interazione, avrebbe portato alla migrazione delle zone di eruzione dei magmi e alla chiusura repentina dei condotti eruttivi precedentemente attivi.
Così si spiega il processo di migrazione del vulcanismo dal versante meridionale (attivo da almeno 500.000 a circa 200.000 anni fa), fino all’area della Valle del Bove (da circa 100.000 a 70.000 anni fa) e agli attuali centri eruttivi (attivi negli ultimi 60 mila anni).
La deformazione indotta dalle faglie lungo il substrato su cui poggia il vulcano ha inoltre influenzato anche lo scivolamento del fianco orientale dell’Etna, secondo quanto sostenuto dai ricercatori, caratterizzato da elevata sismicità, come ampiamente dimostrato dal terremoto dello scorso dicembre.