Alla Conferenza del Clima di Durban sono stati presentati dati davvero raccapriccianti in merito alla qualità dell’aria sulla regione montagnosa tra il Nepal ed il Tibet, dove si erge la catena dell’Himalaya. Sulla base delle conclusioni del progetto “Share” (Stations at high altitude for research on the environment), frutto di cinque anni di lavoro del comitato Ev-K2-Cnr, dal 2006 al 2010 nella regione dell’Everest si sarebbero registrati oltre 150 giorni caratterizzati da picchi elevati di inquinamento. Un problema non da poco, se si considera che ha già portato la popolazione interessata del Nepal a chiedere lo status di rifugiati ambientali.
Il progetto è stato coordinato dal personale dell’Istituto di Scienze dell’atmosfera e del clima del Consiglio nazionale delle ricerche (Isac-Cnr) e questo è un fatto di enorme prestigio per il nostro Paese. Questa rilevazione così terribile della qualità dell’aria, sulla zona delle montagne più alte del Pianeta, si è compiuta attraverso il monitoraggio costante della presenza di composti inquinanti presso la stazione globale Gaw-Wmo ”Nepal Climate Observatory – Pyramid”, posizionata a 5.079 metri di quota in Nepal, alle pendici del Monte Everest. Tra marzo 2006 e dicembre 2010 ci sono stati oltre 164 giorni di inquinamento acuto, pari al 9% del totale del periodo analizzato.
La concentrazione degli alti tassi d’inquinamento si è registrata principalmente durante la stagione pre-monsonica (primavera). Rispetto alla normalità, in questi periodi le concentrazioni dell’ozono aumentano del 29%, quelle del “carbone nero” addirittura del 352%. Va considerato che l’ozono troposferico è uno dei gas serra più pericolosi, mentre le particelle di ”carbone nero” sono in grado di accelerare lo scioglimento dei ghiacciai. Cos’è che ha portato questi gas così pericolosi sul Tetto del Mondo? Secondo le analisi sarebbero stati i monsoni a convogliare nubi inquinate e gas, provenienti dalle aree industriali dei paesi dell’Asia del sud.
Il risultato è che il clima sta pesantemente cambiando negli ultimi anni su villaggi d’alta quota, dove le sorgenti si stanno sempre più inaridendo costituendo un grosso problema per i pascoli e per l’irrigazione: non a caso le popolazioni hanno denunciato la distruzione della loro economia richiedendo lo status di rifugiati ambientali. In particolare l’aumento delle temperature influenza il bilancio tra neve, ghiaccio e acqua, ponendo a rischio tutto l’ecosistema del zona e dei maggiori bacini fluviali delle valli circostanti. Il tasso di perdita di ghiacci è andato aumentando causando il ritiro dei ghiacciai sia nelle zone centrali dell’Himalaya, sia in quelle orientali.
In particolare negli ultimi 30 anni la perdita di ghiaccio è stata del 22% nel Bhutan e del 21% in Nepal. Dove, poi, come in Tibet, i ghiacciai sono più puliti, il danno è maggiore, perché i detriti rallentano lo scioglimento. La copertura nevosa, invece, è diminuita nelle zone centrali, mentre è aumentata leggermente nelle aree orientali e occidentali. Infine, l’aumento delle temperature è stato maggiore rispetto al riscaldamento globale. Sulla questione è stato realizzato nella regione nepalese di Mustang il documentario “Mustang: il cambiamento climatico su tetto del mondo”, di Stefano Ardito, prodotto da Ev-K2-Cnr.