Sotto il cielo di Roma
L’odore del caffè invade l’aria della camera da letto con la stessa invadenza dell’uragano “Gloria” del quale m’innamorai tanti anni fa, poi scoprii che il nome non rispecchiava la sua indole e ci lasciammo di malo modo. Fu un amore tempestoso che naufragò nel volgere di pochi giorni.
Oltre all’odore del caffè, mi riporta alla realtà l’urlo disumano della Sora Cesira che nel versarlo s’è scottata. Ahh la vecchiaia! La domenica sembra non cominciare sotto buoni auspici ma è tutto un bluff. Un sinistro bagliore in lontananza mi chiama alla finestra. Non faccio in tempo neanche a spostare la tenda che già sono pronto con borsa, macchine e quant’altro.
Attraverso la cucina come il pendolino sulla direttissima e mi precipito verso lungotevere nella speranza di trovare uno scorcio di Roma antica da immortalare.
Mi trovo così a passare sul “Ponte di Ferro”, come lo chiamano qui a Roma, dal quale si può ammirare ciò che resta dei serbatoi del gas che una volta lo irradiavano per Roma per portarlo nelle case e che oggi si ergono nella loro sinistra scheletricità a ricordarci il tempo che fu. Dietro a loro le nuvole s’invorticano sotto le correnti quota disegnando scenari che mi ricordano vecchi film in b/n sul tempo dei tedeschi a Roma.
Allora non ci resta che immortalare il momento nella sua sconcertante bellezza perché a Roma cieli così non li trovi neanche di seconda mano a Porta Portese per cui mi crogiolo in quei ribaltamenti così cupi che quando cominciano a cadere le prime gocce mi sento come un bambino a cui strappano la cioccolata dalle mani. Mi accorgo che non c’è un minimo di riparo decente nell’arco di 100 metri per cui l’unica cosa da fare è scendere di corsa lungo la piccola scarpata ed accovacciarsi sotto l’arcata del ponte in attesa che passi il peggio.
Appena trovo un po’ di riparo mi accorgo di non essere solo anzi ho pure invaso quella striscia di territorio che forse non m’appartiene. Lo capisco da quei due occhi calmi e paciosi nascosti dietro la folta ed incolta barba, lo capisco dallo stile nel vestire che non sono abiti di Valentino, lo capisco dagli anni che non sai dargli.
Sono abiti chiari ancora buoni che nascondono il buio di chi l’indossa, di chi cerca di coprire la propria indigenza di quel tanto da non meritarsi gli sguardi indignati e schifati della gente comune.
Le prime saette iniziano il loro ritornello mentre il vento comincia a gonfiare i muscoli. Il mio vicino si copre con un cartone perché il vento comincia a portare raffiche d’acqua fin li sotto. Mi sento chiamare “dottore”, mi volto e vedo la sua mano tesa che mi allunga un cartone:
“Si copra dottore che adesso viene il bello…”.
Lo guardo un attimo e mentre lo fisso mi viene da pensare se sa cosa vuol dire la parola “bello” ma mi siedo vicino a lui a guardare il Tevere che adesso biondo non è più anzi…
