‘Il clima sulle Alpi ha mutato in epoca storica?’ Questa domanda, nel 1936, dava il titolo a uno studio fondamentale di Umberto Mònterin, pioniere delle ricerche storiche nel campo della glaciologia italiana. Fra le tante osservazioni su cui si soffermava Mònterin, una in particolare colpisce: il ritrovamento, intorno al Lago Fiorenza (2.113 m), nell’alta Valle Po, di un accumulo di tronchi di larice, portati lì da qualche valanga. Si trattava di tronchi di epoca medievale, testimonianza d’un clima diverso, certamente più caldo (Mònterin, p. 60).
Occupandosi di variazioni climatiche, ci s’imbatte sempre in questa contraddizione: da una parte le certezze di chi imputa il presunto riscaldamento alle attività umane; dall’altra, chi fa rilevare che, in epoca storica, si sono verificati periodi più caldi dell’attuale e che è, quindi, quantomeno azzardato parlare di responsabilità dell’uomo in una materia così complessa e tanto poco conosciuta. Il periodo caldo medievale, però, c’è chi ha tentato di farlo passare per leggenda e chi, invece, ne sminuisce l’importanza trattandolo con ironia e superficialità. È il caso di Stefano Caserini, che su ‘La Repubblica delle Donne’ del 14 giugno 2008 firma un articolo per dire che il riscaldamento globale è cosa assodata, su cui tutta la comunità scientifica è concorde, e che chi lo nega è un retrogrado.
«Stiamo evitando la questione – scrive Caserini – stiamo adducendo scuse. Le scuse di chi vuole sempre saperne un po’ di più e vuole essere davvero sicuro che il problema sia grave; di chi è certo che la colpa è del Sole, che nel Medioevo faceva più caldo, che nella preistoria sulle Alpi c’erano i pastori vestiti in abiti leggeri, che la Groenlandia era una terra verde».
Il punto, allora, è proprio questo: come spiega, Caserini, il fatto che oggi, attorno al Lago Fiorenza, non cresca nemmeno un arbusto, mentre alcuni secoli fa era circondato da boschi di larici fino ad almeno 2.300 m di quota (Mònterin, pp. 60-61)? E come dà conto delle altre centinaia di evidenze del piccolo optimum medievale (piccolo, perché durò solo cinque secoli), quali la coltivazione dell’olivo in Valle d’Aosta (Mònterin, p. 67), la diffusione della vite, dei cereali e della canapa in Canton Ticino a quote oggi impensabili (Pellegrini, p. 213), le foreste della Baia di Hudson cento chilometri a nord dei limiti attuali (Le Roy Ladurie, p. 289), la formazione di paludi e acquitrini dovuti all’innalzamento del mare nell’area fra Grado e Ravenna (Pinna, p. 422)? Semplicemente, saltando il problema e rifugiandosi nel dogma che viene dall’Intergovernmental Panel on Climate Change: il riscaldamento globale esiste perché lo dicono loro, perché «la responsabilità umana sulle variazioni climatiche degli ultimi decenni è chiarissima». Se il dibattito nasce su tali presupposti, che altro aggiungere? A cosa vale raccogliere i dati storici, analizzarli, confrontarli? Uno come Caserini potrà anche essere docente al Politecnico di Milano, ma dal suo punto di vista la questione non ha nulla di scientifico: ha già deciso da che parte stare, e ciò è sufficiente per chiudere gli occhi, confutando così qualunque critica.
Bibliografia:
E. LE ROY LADURIE, Tempo di festa, tempo di carestia, Torino, 1982.
U. MONTERIN, Il clima sulle Alpi ha mutato in epoca storica?, in «Bollettino del Comitato Glaciologico Italiano», n. 16 (1936), pp. 57-107.
M. PELLEGRINI, Materiali per una storia del clima nelle Alpi lombarde durante gli ultimi cinque secoli, in «Archivio Storico Ticinese», n. 55-56 (1973), pp. 135-278.
M. PINNA, Climatologia, Torino, 1977.
Parte I: https://www.meteogiornale.it/news/read.php?id=14925