Lenta, com’è tipico d’una fase debole, ma inesorabile, la ripresa dell’attività magnetica solare fa segnare un altro mese di crescita degli indici (ancora provvisori) legati alle macchie. Per la prima volta dal maggio 2007, a gennaio si sono registrati solo 4 spotless days: il che porta il totale del trapasso fra i cicli 23/24 a 775 giorni, il valore più elevato dell’ultimo secolo. È tuttavia da notare come la comparsa di nuove macchie, nell’ultimo periodo si sia fatta sempre più insistente, tant’è che i giorni bianchi sono risultati del tutto episodici: il 6-7 gennaio, il 19 e il 30 gennaio. A questo punto, con uno smoothed number balzato a 3,6 per via d’un RI 12,6 (l’indice che rende il numero medio mensile di macchie), bisogna risalire al dicembre 2006 per ritrovare un dato più elevato. Non sono ancora state rese note tutte le proiezioni temporali circa l’evoluzione del ciclo 24, ma non dovrebbero scostarsi molto da quelle calcolate a fine dicembre: massimo previsto nel 2013, tra la primavera e l’autunno a seconda dei metodi predittivi adottati (l’australiana Space Weather Agency lo fissa tra settembre e ottobre).
L’andamento di gennaio ha tuttavia raffreddato l’enfasi con cui si era descritto il trapasso in atto. È vero che altri indici (velocità e pressione del vento solare, flusso solare, eccetera) rimangono relativamente bassi ma, dato che la loro misura presuppone tecnologie sviluppate solo verso la metà del XX secolo, non esistono termini di paragone per stabilire se essi abbiano qualche equivalenza con quanto osservato durante il Minimo di Damon (1856-1913), che al momento resta la fase a cui la situazione attuale è più somigliante. Il ciclo 24, insomma, lungi dall’essere eccezionale, non sembra nemmeno quello determinante per una quiescenza ultradecennale: che, semmai, potrebbe realizzarsi dopo il 2019, quando avrà inizio il ciclo 25.
Non trovano invece soluzione tutti i quesiti che legherebbero l’attività solare al clima terrestre. La questione circa la reale portata del Global warming, già messa in crisi dal duro inverno vissuto dall’Europa e parte degli Stati Uniti, si intreccia piuttosto con considerazioni relative alla trasparenza dei rapporti prodotti dall’IPCC. Di recente si è fatto notare che, oltre al cosiddetto Climategate, ovvero la pratica dell’aggiustamento dei dati affinché corrispondessero a tesi precostituite, altri episodi stanno inficiando l’autorevolezza del panel intergovernativo. Si va dalle accuse a Rajendra Kumar Pachauri, il presidente dell’IPCC, che ha ricoperto incarichi di responsabilità in industrie che traggono profitto dall’allarme climatico attraverso la promozione di prodotti ed energie alternative, al fatto che si sia usato un semplice rapporto del WWF sul catastrofico arretramento dei ghiacciai terrestri, anziché analisi ed osservazioni sottoposte a procedura di revisione (peer review). Ultimo in ordine di tempo, l’Amazongate: l’affermazione per cui la foresta amazzonica reagirebbe drasticamente anche a un leggero cambiamento del regime pluviometrico, sarebbe supportata solo da un documento redatto da uno specialista del WWF e della World Conservation Union che opera in Australia e in Asia, ma non ha mai operato nel bacino amazzonico, col contributo d’un giornalista che ha lavorato per le campagne di Greenpeace e del WWF.
Insomma, un dibattito sul clima che, sempre più ideologizzato, per il momento non ha tempo di occuparsi della componente solare. E forse è un bene per il mondo scientifico, che avrà così modo di indagare questi legami senza la pressione di un’opinione pubblica e d’una sfera politica ossessionate da un risultato a tutti i costi.
Sulle accuse all’IPCC: joannenova.com.au/2010/01/the-four-gates-of-the-ipcc/