Nella scorsa estate lo Stromboli ha fatto davvero paura, con paurose deflagrazioni dal cratere del vulcano tali da causare una pioggia di lapilli che è stata anche causa di una vittima e di feriti, oltre a provocare il panico fra la gente in fuga.
Si è così condotto uno studio, realizzato dall’INGV in collaborazione con le Università La Sapienza di Roma e del Queensland in Australia per cercare di trovare le cause di questa improvvisa violenta attività. La ricerca è stata condotta attraverso l’analisi dei sali minerali eruttati dal vulcano.
Ci sarebbe l’interazione di due magmi fra le cause principali, uno molto caldo a circa dieci chilometri di profondità che risale all’interno della crosta entrando in contatto con il magma più freddo presente a 3 chilometri di profondità.
La ricerca si è focalizzata sui prodotti delle eruzioni dello Stromboli dal 2003 al 2017, principalmente i pirosseni (minerale magmatico da cui si ricavano i processi che avvengono all’interno della crosta), e ha importanti ripercussioni sulla comprensione dei meccanismi delle esplosioni dell’estate del 2019.
I pirosseni rinvenuti nei prodotti dell’esplosione avvenuta il 5 aprile 2003 hanno mostrano che questo processo di interazione fra i due magmi è stato molto più veloce rispetto alle eruzioni successive che sono avvenute fino al 2017, secondo quanto riferito dal vulcano Piergiorgio Scarlato.
I ricercatori hanno inoltre scoperto che le eruzioni del periodo che va dal 2003 al 2017 sono collegate ad un sistema magmatico superficiale molto più caldo di quello del passato. Adesso si stanno studiando i prodotti vulcanici eruttati più recentemente per capire se il sistema di alimentazione dello Stromboli sia mutato.
Il maggior pericolo delle eruzioni dello Stromboli resta tuttora legato al rischio di onde anomale come quelle che nel 1343 distrussero i porti di Amalfi e Napoli. Una delle grandi insidie sono le gigantesche frane lungo i suoi versanti. L’ultimo rilevante tsunami sulle coste del Basso Tirreno si ebbe nel dicembre del 2002.