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Sole e clima, un dibattito già inquinato

di Stefano Di Battista
05 Apr 2009 - 20:34
in Senza categoria
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La corona durante la tempesta solare del 27 febbraio 2000. Il cerchio bianco del coronografo rappresenta la circonferenza del Sole e serve a valutare a quanti raggi solari (solar radius) corrisponda la prominenza. Durante una singola tempesta vengono scagliate nello spazio, mediamente, circa 10 miliardi di tonnellate di materia solare (coronal mass ejection) a una velocità fino a 2.000 km/s (fonte: www.solarweek.org)
Il prolungarsi del minimo legato al trapasso dei cicli solari 23-24 sta destando ampio dibattito sulle cause del riscaldamento globale. Gli scettici circa le teorie antropocentriche dell’IPCC scorgono nel cambio di segno delle curve termiche un primo indizio della quiescenza del Sole, che farebbe supporre un prossimo, incisivo calo delle temperature terrestri. Il postulato si basa sulle due idee seguenti:

a) le fasi di minimo comportano una diminuzione della TSI (Total Solar Irradiance): l’atmosfera terrestre riceverebbe meno calore, in misura proporzionale al prolungarsi della quiescenza;

b) la perdita di velocità del vento solare riduce l’efficacia dell’eliosfera quale barriera alla radiazione cosmica, presunta responsabile dei processi di incremento della copertura nuvolosa (schermo solare).

Detto questo, va chiarito che il XX secolo è stato scenario di quello che passa sotto il nome di Massimo solare moderno (Grand maximum), caratterizzato da un RG 75 medio a partire dal 1950, contro un RG 35 circa per il periodo 1750-1900. Le probabilità che tale episodio possa prolungarsi sono scarse e ciò, lungi dal rappresentare una previsione, emerge in chiave puramente statistica [Usoskin, pp. 50-51]. Se l’attività magnetica è destinata a ridursi, è pensabile che anche la temperatura degli oceani prima, dei continenti poi, segua un trend analogo, pur con qualche importante eccezione. I modelli calibrati sul Minimo di Maunder propriamente detto (1645-1715), ovvero nel cuore della Piccola età glaciale, mostrano che l’Europa mediterranea ebbe temperature medie in linea, o poco inferiori alle attuali; l’area fra Labrador e Groenlandia, la Siberia orientale verso lo Stretto di Bering, l’Oceano Indiano meridionale e la costa australiana occidentale presentarono scarti superiori a +0,5 °C; la costa nord occidentale americana fra Canada e Alaska passò i +1,0 °C. Al contrario, le aree più fredde risultarono la California e l’Oceano Atlantico meridionale (-1,5 °C e oltre), mentre l’Europa continentale andò sotto ai -0,5 °C [Hoyt, p. 182].

Questi pochi elementi evidenziano una complessità che non può essere risolta generalizzando la portata d’un singolo elemento. Come l’IPCC, si accusa da più parti, avrebbe enfatizzato il ruolo dell’anidride carbonica per ottenere una semplificazione funzionale a livello mediatico, così ora rischia di avvenire tra i fautori dell’ipotesi solare. Se certe critiche all’IPCC vertono su un uso disinvolto dei dati, analoghe tentazioni stanno emergendo in campo avverso. Esemplare in tal senso, oltre che di stretta attualità, il conteggio dei giorni senza macchia (spotless days). Al 5 aprile, il ciclo 23 ha raggiunto i 593 giorni spotless (il primo risale al 27 gennaio 2004), divenendo così il minimo più importante dal 1913 (ciclo 14). Tra i vari indicatori che danno conto dell’intensità dell’attività magnetica, è determinante il numero complessivo di spotless days, cui si associano, per logica, sequenze ininterrotte di 20 o più giorni; ma più che un dato statistico, tali sequenze rappresentano un fatto contingente. Per semplificare su un piano calcistico, è un po’ come vincere 1-0 o 4-0: vale sempre tre punti in classifica. Invece, basta aprire qualche forum sull’argomento e tale dato pare questione di vita o di morte. Non solo: si fa pure uso dell’unità di misura più comoda a supportare la propria tesi, come se per dire che fa freddo si spacciassero gradi Fahrenheit per Celsius.

Ecco cosa accade. Il 26 marzo, sul Sole è emersa una fugace macchia che il SIDC (Solar Influences Data Analysis Center) ha registrato con RZ 7; la NOAA (National Oceanic and Atmospheric Administration) al contrario, tale macchia non l’ha catalogata. Per il SIDC dunque, al 5 aprile si contavano 10 giorni spotless; per la NOAA invece, 29 a partire dall’8 marzo. E fin qui, tutto bene. Quello che non può essere accettato, è il fatto che si ponga la sequenza della NOAA su un piano storico, facendo confronti con le più antiche documentate (la più lunga, 92 giorni, fu registrata fra l’8 aprile e l’8 luglio 1913; i 140 giorni fra il 24 ottobre 1822 e il 12 marzo 1823 non sono mai divenuti ufficiali in quanto non esistono osservazioni per il 29 dicembre 1822). La serie della NOAA infatti, va sotto il nome di American sunspot numbers, segue un conteggio proprio e data dal 1944; la sequenza riferita al 1913 invece, fa capo al SIDC, che compila gli International sunspot numbers (o Zürich sunspot numbers, RZ appunto). La differenza è strategica: nel primo caso la serie vanta 65 anni di osservazioni, nel secondo è stata ricostruita sino al 1610. Le due modalità non sono alternative, e confonderle significa intorbidare le acque, giocare coi dati: e da lì alla manipolazione mediatica il passo è breve.

L’ipotesi solare nella dinamica del clima terrestre non è campata in aria: potrebbe anzi ottenere vasti riconoscimenti in questa fase di così profonda quiescenza. Le più recenti acquisizioni della ricerca dicono infatti che episodi di Grand maxima come quello del XX secolo sono affatto rari, ultramillenari, poiché il Medieval maximum, correlato all’optimum climatico del XIII secolo, non raggiunse tali intensità [Usoskin, p. 50]. L’informazione e il dibattito in merito però, e a ogni livello, dovrebbero essere sorvegliati dai loro stessi autori, specie in un campo di così radicale novità: altrimenti, quale conoscenza si apporta, se l’argomento è inquinato dall’ideologia? Per tornare all’esempio sportivo, l’attività solare non è una partita di calcio: Sole e clima terrestre seguono le loro dinamiche, del tutto indipendenti dalle umane passioni. Come esseri pensanti, che hanno il privilegio di poterle osservare, in qualche misura le possiamo anche capire. Non sarebbe allora il caso di porsi con più umiltà davanti a questi fatti, la cui complessità e ampiezza trascendono di gran lunga l’uomo, la sua scienza e tutta la sua storia?

Bibliografia
D.V. HOYT, K.H. SCHATTEN, The Role of the Sun in Climate Change, New York, 1997.
I.G. USOSKIN, A History of Solar Activity over Millennia, in «Living Reviews in Solar Physics», vol. 5, n. 3 (2008), pp. 1-87.

Sugli Zürich sunspot numbers si veda https://www.meteogiornale.it/news/read.php?id=19893

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