La giunta militare del Myanmar ha dichiarato domenica 4 maggio “area disastrata” cinque province nel sud del paese, a seguito del passaggio del ciclone Nargis, che ha impattato nel sudovest del paese, per interessare poi il delta dell’Irrawaddy, quindi la capitale Yangon, per poi spostarsi verso il confine con la Thailandia nordoccidentale.
Investendola per diverse ore con raffiche fino a oltre 200 km/h sabato mattina, il ciclone Nardis ha devastato la ex capitale Yangon, riempiendo le strade di detriti, risultato dello sradicamento di molti alberi e del danneggiamento di moltissimi edifici.
Le poche testimonianze parlano di Yangon come di una città devastata da una guerra, con alberi abbattuti sulle strade, linee elettriche abbattute, ospedali devastati, migliaia di abitazioni distrutte o seriamente danneggiate, mancanza di acqua potabile, collasso della rete telefonica e di Internet. Ancora domenica mattina la città era senza luce e acqua. Fonti non ufficiali dell’azienda deputata alla distribuzione dell’energia elettrica non indicavano ancora alcuna certezza riguardo ai tempi di ripristino del servizio. Chiuso anche l’aeroporto internazionale, con tutti i voli dirottati su Mandalay, seconda città del paese. Non si prevede l’apertura dell’aeroporto di Yangon prima di lunedì.
Le devastazioni subite dai tetti degli edifici a Yangon fanno supporre danni estremamente gravi nelle aree fittamente abitate del delta dell’Irrawaddy, dove la maggior parte delle abitazioni sono (o erano? si stima che almeno 20.000 abitazioni siano andate distrutte) tutt’altro che robuste.
Gli esperti di disastri delle Nazioni Unite confermano che ci vorranno giorni ad avere un’idea sufficientemente precisa dell’entità dei danni e delle perdite umane (al momento si parla di 350 morti), in un paese sottoposto dal 1962 ad un regime militare severissimo e molto rigido nel controllo delle fonti d’informazione. Anche ai tempi dello tsunami del 26 dicembre 2004 il Myanmar fu il paese dal quale le notizie filtravano con maggiore difficoltà.
Asserragliati nei palazzi del potere a Naypydaw, la nuova capitale, 380 km a nord di Yangon, i generali al governo non sono rimasti coinvolti dal peggio della tempesta. A una prima offerta di assistenza umanitaria da parte dell’UNOCHA (United Nations Office Coordination Humanitarian Affairs), i generali non hanno risposto, sostanzialmente rifiutando aiuti esterni.
Si diceva dell’incertezza sull’entità delle perdite umane. Esse sono state presumibilmente alte soprattutto nelle aree devastate della costa e del delta dell’Irrawaddy. I meteorologi avevano previsto, nell’area costiera interessata dal landfall, una “storm surge” fino 3,5 metri, certamente distruttiva. Oltre alle vittime, difficile anche la conta dei senzatetto, si parla di oltre 90.000.
C’è infine il timore è che la catastrofe possa bloccare il referendum per la modifica della Costituzione, in programma sabato prossimo, che dovrebbe avviare una sorta di “road map” verso la convocazione di elezioni libere nel 2010 e mettere fine alla dittatura militare.