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L'alluvione in Alta Versilia del 19 giugno 1996. Quinta ed ultima parte

di Giovanni Staiano
02 Lug 2004 - 11:05
in Senza categoria
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immagine 1 del capitolo 5 del reportage lalluvione in alta versilia del 19 giugno 1996 Immagine di Cardoso, scattata il 29 giugno 1996 da Giovanni Staiano, la croce di legno posta dov’era la casa della più piccola delle vittime (accanto il suo orsacchiotto). Le distruzioni gravissime e i morti dell’alta Versilia, in particolare di Cardoso, e di Fornovolasco, misero relativamente in secondo piano le devastazioni che l’alluvione portò anche nella pianura solcata dal Versilia, che come ricordato esondò e ruppe l’argine in località La Rotta (e il nome la dice lunga sulla “delicatezza” di tale punto, dove il fiume fa una curva).

La ferrovia Genova-Roma rimase interrotta per oltre una settimana tra Forte dei Marmi e Pietrasanta, per gravi danni alla massicciata in un tratto di 500 metri circa all’altezza del ponte sul Versilia, con le rotaie invase dai tronchi d’albero grottescamente sospese in aria. La statale Aurelia rimase chiusa fino a domenica 23 giugno all’altezza di Ponterosso, alle spalle di Marina di Pietrasanta. Il sottopasso ferroviario tra la stessa Aurelia e il centro di Pietrasanta, invaso da acqua e detriti di ogni genere, rimase anch’esso impraticabile per diversi giorni.

Il comune di Pietrasanta fu interessato dall’alluvione per un’area di 800 ettari, circa un quinto del territorio. Le case e le aziende che si affacciavano sull’Aurelia a Ponterosso e Pontestrada furono invase dall’acqua che poi lasciò, ritirandosi, tonnellate di melma e detriti, nonché oggetti di ogni genere: i soliti tronchi, ma anche elettrodomestici, carcasse d’auto e motorini. Il tessuto economico subì danni notevoli.

Allagamenti e danni vi furono anche al Cinquale, dove la gente aveva molto vivo il ricordo dell’alluvione del 6 e 7 novembre 1994. La rottura dell’argine e il conseguente “sfogo” dell’ondata di piena verso Pietrasanta fecero sì che gli effetti dell’alluvione del 19 giugno fossero più limitati di quella di un anno e mezzo prima.

Molti i danni anche alle attività agricole, nelle aree interessate dall’esondazione del Versilia, ma anche del Fescione, del Frigido e del fosso Poveromo, quindi nel territorio di Montignoso e Massa.

Tornando all’entroterra versiliese, il 29 giugno, dieci giorni dopo l’evento, mi recai a Cardoso come componente di una squadra di volontari organizzata in seno all’azienda dove lavoravo, e lavoro tuttora. La situazione della valle del Vezza era ancora di gravissima emergenza e infatti solo gli autorizzati potevano proseguire oltre Seravezza.

I segni dell’alluvione erano ben chiari già a Pietrasanta, e aumentavano entrando nella valle sconvolta del Versilia. Strada danneggiata in più punti, fango ovunque, letto del corso d’acqua sconvolto, certo un quadro non piacevole, ma che impressionava relativamente, avendo oltretutto io vissuto da ragazzino in diretta l’alluvione di Genova del 1970.

Ma appena passata Seravezza iniziò l’incubo. Nulla era più come prima, non solo le case e le strade, ma persino la montagna aveva cambiato fisionomia, e man mano che si risaliva la valle era sempre peggio.

La strada che costeggiava il Vezza era stata portata via in più punti, dove parzialmente e dove totalmente, e infatti un ponte Bailey e un paio di “piste” tracciate precariamente permettevano di superare i punti più critici. Nei pochi tratti dove il manto stradale era intatto non c’erano comunque più le protezioni laterali. Il tessuto edilizio era in condizioni tragiche, all’Argentera come a Ruosina. Case invase da fango e detriti, alcune, fra quelle più vicine ai corsi d’acqua, diroccate, ponti rotti, muri di sostegno franati. E a bordo strada cominciavano le “unghiate” delle frane, dapprima rade e di limitata entità, poi sempre più estese e frequenti.

Giunti a Ponte Stazzemese, affollatissimo di volontari e mezzi di soccorso che si muovevano in un paesaggio dove il colore di gran lunga prevalente era il marrone del fango, pareva impossibile poter trovare di peggio più a monte. Il paese appariva come bombardato, con il moncone dell’Albergo La Pania a dominare la scena, purtroppo però non unico edificio danneggiato.

Oltre Ponte Stazzemese, a parte quello che vedevo e che non poteva non impressionare chiunque capitasse lì anche per la prima volta, mi fece effetto il “non riconoscere” la montagna, i punti di riferimento di un percorso che avevo fatto in auto varie volte, diretto ai paesi per iniziare le mie escursioni. La fisionomia della valle era così cambiata che non la riconoscevo più: allargata in vari punti dall’erosione effettuata dall’onda di piena, con il letto del torrente sollevato di vari metri dalla massa di detriti, con diverse aree boscate “raschiate” via dalle frane, quindi ora con la terra fangosa (aveva piovuto ancora parecchio nei giorni fra il 19 e il 29) scoperta, senza più alcuni edifici (case ma anche attività, soprattutto quelle collegate alla lavorazione della pietra del Cardoso) che pure avevo ben memorizzato. Insomma una strana e angosciante sensazione, di trovarmi in un posto che non conoscevo.

A Vallinventre, il nucleo di case posto appena più in basso di Cardoso, si era nel cuore del dramma. E’ anche difficile descrivere com’era questo gruppo di case, molte delle quali diroccate, con l’interno delle stanze grottescamente visibile dagli squarci, come dopo un terremoto, che però non porta quel marrone, quel fango, che era ovunque e che continuava a scendere dalla montagna irriconoscibile, con gli impluvi tutti paurosamente allargati e portati alla pietra nuda, ma ancora ingombri di tronchi e grossi sassi rimasti in bilico in posizioni talvolta grottesche.

immagine 2 del capitolo 5 del reportage lalluvione in alta versilia del 19 giugno 1996 Cardoso il 29 giugno 1996, scattata dall’ingresso del paese venendo da valle, si nota il campanile della chiesa e, in alto, il caratteristico arco di roccia del Monte Forato. Infine Cardoso: un pugno nello stomaco! Un paese (ma potevo ancora chiamarlo così?) dove si muovevano molte figure, quasi tutte con pala, piccone e stivali, a togliere fango e pietre in un’atmosfera angosciata, circondati da quell’ambiente apuano di solito così bello e diventato invece così nemico, opprimente, con i boschi portati via in più punti dalle frane e l’acqua che continuava a venire giù, marrone, minacciosa, da ogni canale e ogni valloncello.

La Cardoso lungo il fiume non era più neppure intuibile. Non si capiva proprio più come era il paese prima e io stesso dovetti fare uno sforzo per riportare alla memoria il borgo che avevo visto l’ultima volta il 10 marzo, tornando dal Forato, con la sorpresa del mucchietto di neve spalata ancora presente in una piazzetta ombrosa (a 265 metri sul versante ovest apuano la neve è rara e una nevicata abbondante, come quella che c’era stata verso il 20 febbraio, rarissima).

Più o meno dove, superato il “centro”, c’era il punto dove confluivano la strada che saliva verso le ultime case prima di attaccare il sentiero per Fonte Moscoso e quella che portava ai casolari di Orzale, 150 metri più in alto, l’orsacchiotto vicino a una croce di legno ricordava la piccola Giulia e qui dovetti davvero farmi forza al pensiero del corpicino portato via dal diluvio di acqua, tronchi e pietre che era sceso da quelle montagne così a me care quel maledetto 19 giugno. Oltretutto neo-papà (mio figlio aveva 5 mesi all’epoca), la commozione fu davvero forte.

Ci assegnarono a una casa nel gruppetto allineato lungo l’ultimo tratto del Canale della Capriola, edifici questi dove le parti murarie avevano retto, ma i piani bassi erano sepolti sotto i detriti portati dalla piena. I soccorritori già da giorni avevano iniziato a rimuovere quella massa enorme di materiali, e noi ci unimmo a loro, ma la sensazione spalando era quella di svuotare il mare con un cucchiaio. C’erano anche i proprietari, che speravano di recuperare alcune delle loro cose, sia quelle di valore affettivo che quelle diciamo di valore economico. Poteva trattarsi di una pentola o un giocattolo, nel mezzo di quella grande distruzione era una piccola gioia, ogni volta che si trovava qualcosa, per chi ripescava l’oggetto dalle macerie e per chi ritrovava un pezzettino, magari minuscolo, di una vita portata via forse per sempre.

Non scorderò mai quella gente, provata dalle distruzioni, dai lutti (anche chi non ne aveva avuto in famiglia, in un paese così piccolo si conoscono tutti), dalla fatica, dall’angoscia per il domani, che volle a tutti i costi offrircì un caffè per ringraziarci, malgrado i nostri dinieghi e i nostri sensi di colpa a prendere qualcosa da chi aveva perso quasi tutto. Fu una esperienza umana straordinaria, che non potrò mai dimenticare e che rafforzò ancor più il mio affetto per le Alpi Apuane e le genti che le abitano.

Sono tornato più volte a Cardoso negli anni a seguire, man mano che il paese veniva ricostruito. E c’è l’ha fatta a rinascere, anche bene, tanto che la ricostruzione sua e del resto della Valle del Vezza (senza dimenticare Fornovolasco) è considerata un modello, il “modello Versilia”, da imitare.

Ora a Cardoso non ci sono case sul greto dei torrenti, gli alvei sono allargati, lungo i canali che scendono ripidi dal Forato e dalla Pania ci sono le “briglie” (enormi sistemi di reti e di muri di sostegno) a ritenere sassi e tronchi e a cercare di smorzare eventuali onde di piena paragonabili a quella del 1996. Cardoso è rinata, attorno alla chiesa che divenne il “faro” della ricostruzione, e come Cardoso sono rinate Ruosina, Seravezza, Pomezzana e, verso la Garfagnana, Fornovolasco, dove la Grotta del Vento continua a richiamare turisti e i ristoranti sono sempre affollati, nei weekend, di persone alla ricerca delle buona e genuina cucina “di terra” (con farro e funghi grandi protagonisti), proposta a prezzi introvabili nelle grandi mete turistiche.

I sentieri sono stati risistemati e le Apuane sono tornate il paradiso di chi ama la natura e la montagna, ma l’alta Versilia e chi, come il sottoscritto, le vuole bene non scorderanno mai quel brutto giorno di giugno.

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Pubblicato da Giovanni Staiano

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Immagine di Cardoso, scattata il 29 giugno 1996 da Giovanni Staiano, la croce di legno posta dov’era la casa della più piccola delle vittime (accanto il suo orsacchiotto). Le distruzioni gravissime e i morti dell’alta Versilia, in particolare di Cardoso, e di Fornovolasco, misero relativamente in secondo piano le devastazioni che l’alluvione portò anche nella pianura solcata dal Versilia, che come ricordato esondò e ruppe l’argine in località La Rotta (e il nome la dice lunga sulla “delicatezza” di tale punto, dove il fiume fa una curva). La ferrovia Genova-Roma rimase interrotta per oltre una settimana tra Forte dei Marmi e Pietrasanta, per gravi danni alla massicciata in un tratto di 500 metri circa all’altezza del ponte sul Versilia, con le rotaie invase dai tronchi d’albero grottescamente sospese in aria. La statale Aurelia rimase chiusa fino a domenica 23 giugno all’altezza di Ponterosso, alle spalle di Marina di Pietrasanta. Il sottopasso ferroviario tra la stessa Aurelia e il centro di Pietrasanta, invaso da acqua e detriti di ogni genere, rimase anch’esso impraticabile per diversi giorni. Il comune di Pietrasanta fu interessato dall’alluvione per un’area di 800 ettari, circa un quinto del territorio. Le case e le aziende che si affacciavano sull’Aurelia a Ponterosso e Pontestrada furono invase dall’acqua che poi lasciò, ritirandosi, tonnellate di melma e detriti, nonché oggetti di ogni genere: i soliti tronchi, ma anche elettrodomestici, carcasse d’auto e motorini. Il tessuto economico subì danni notevoli. Allagamenti e danni vi furono anche al Cinquale, dove la gente aveva molto vivo il ricordo dell’alluvione del 6 e 7 novembre 1994. La rottura dell’argine e il conseguente “sfogo” dell’ondata di piena verso Pietrasanta fecero sì che gli effetti dell’alluvione del 19 giugno fossero più limitati di quella di un anno e mezzo prima. Molti i danni anche alle attività agricole, nelle aree interessate dall’esondazione del Versilia, ma anche del Fescione, del Frigido e del fosso Poveromo, quindi nel territorio di Montignoso e Massa. Tornando all’entroterra versiliese, il 29 giugno, dieci giorni dopo l’evento, mi recai a Cardoso come componente di una squadra di volontari organizzata in seno all’azienda dove lavoravo, e lavoro tuttora. La situazione della valle del Vezza era ancora di gravissima emergenza e infatti solo gli autorizzati potevano proseguire oltre Seravezza. I segni dell’alluvione erano ben chiari già a Pietrasanta, e aumentavano entrando nella valle sconvolta del Versilia. Strada danneggiata in più punti, fango ovunque, letto del corso d’acqua sconvolto, certo un quadro non piacevole, ma che impressionava relativamente, avendo oltretutto io vissuto da ragazzino in diretta l’alluvione di Genova del 1970. Ma appena passata Seravezza iniziò l’incubo. Nulla era più come prima, non solo le case e le strade, ma persino la montagna aveva cambiato fisionomia, e man mano che si risaliva la valle era sempre peggio. La strada che costeggiava il Vezza era stata portata via in più punti, dove parzialmente e dove totalmente, e infatti un ponte Bailey e un paio di “piste” tracciate precariamente permettevano di superare i punti più critici. Nei pochi tratti dove il manto stradale era intatto non c’erano comunque più le protezioni laterali. Il tessuto edilizio era in condizioni tragiche, all’Argentera come a Ruosina. Case invase da fango e detriti, alcune, fra quelle più vicine ai corsi d’acqua, diroccate, ponti rotti, muri di sostegno franati. E a bordo strada cominciavano le “unghiate” delle frane, dapprima rade e di limitata entità, poi sempre più estese e frequenti. Giunti a Ponte Stazzemese, affollatissimo di volontari e mezzi di soccorso che si muovevano in un paesaggio dove il colore di gran lunga prevalente era il marrone del fango, pareva impossibile poter trovare di peggio più a monte. Il paese appariva come bombardato, con il moncone dell’Albergo La Pania a dominare la scena, purtroppo però non unico edificio danneggiato. Oltre Ponte Stazzemese, a parte quello che vedevo e che non poteva non impressionare chiunque capitasse lì anche per la prima volta, mi fece effetto il “non riconoscere” la montagna, i punti di riferimento di un percorso che avevo fatto in auto varie volte, diretto ai paesi per iniziare le mie escursioni. La fisionomia della valle era così cambiata che non la riconoscevo più: allargata in vari punti dall’erosione effettuata dall’onda di piena, con il letto del torrente sollevato di vari metri dalla massa di detriti, con diverse aree boscate “raschiate” via dalle frane, quindi ora con la terra fangosa (aveva piovuto ancora parecchio nei giorni fra il 19 e il 29) scoperta, senza più alcuni edifici (case ma anche attività, soprattutto quelle collegate alla lavorazione della pietra del Cardoso) che pure avevo ben memorizzato. Insomma una strana e angosciante sensazione, di trovarmi in un posto che non conoscevo. A Vallinventre, il nucleo di case posto appena più in basso di Cardoso, si era nel cuore del dramma. E’ anche difficile descrivere com’era questo gruppo di case, molte delle quali diroccate, con l’interno delle stanze grottescamente visibile dagli squarci, come dopo un terremoto, che però non porta quel marrone, quel fango, che era ovunque e che continuava a scendere dalla montagna irriconoscibile, con gli impluvi tutti paurosamente allargati e portati alla pietra nuda, ma ancora ingombri di tronchi e grossi sassi rimasti in bilico in posizioni talvolta grottesche. Cardoso il 29 giugno 1996, scattata dall’ingresso del paese venendo da valle, si nota il campanile della chiesa e, in alto, il caratteristico arco di roccia del Monte Forato. Infine Cardoso: un pugno nello stomaco! Un paese (ma potevo ancora chiamarlo così?) dove si muovevano molte figure, quasi tutte con pala, piccone e stivali, a togliere fango e pietre in un’atmosfera angosciata, circondati da quell’ambiente apuano di solito così bello e diventato invece così nemico, opprimente, con i boschi portati via in più punti dalle frane e l’acqua che continuava a venire giù, marrone, minacciosa, da ogni canale e ogni valloncello. La Cardoso lungo il fiume non era più neppure intuibile. Non si capiva proprio più come era il paese prima e io stesso dovetti fare uno sforzo per riportare alla memoria il borgo che avevo visto l’ultima volta il 10 marzo, tornando dal Forato, con la sorpresa del mucchietto di neve spalata ancora presente in una piazzetta ombrosa (a 265 metri sul versante ovest apuano la neve è rara e una nevicata abbondante, come quella che c’era stata verso il 20 febbraio, rarissima). Più o meno dove, superato il “centro”, c’era il punto dove confluivano la strada che saliva verso le ultime case prima di attaccare il sentiero per Fonte Moscoso e quella che portava ai casolari di Orzale, 150 metri più in alto, l’orsacchiotto vicino a una croce di legno ricordava la piccola Giulia e qui dovetti davvero farmi forza al pensiero del corpicino portato via dal diluvio di acqua, tronchi e pietre che era sceso da quelle montagne così a me care quel maledetto 19 giugno. Oltretutto neo-papà (mio figlio aveva 5 mesi all’epoca), la commozione fu davvero forte. Ci assegnarono a una casa nel gruppetto allineato lungo l’ultimo tratto del Canale della Capriola, edifici questi dove le parti murarie avevano retto, ma i piani bassi erano sepolti sotto i detriti portati dalla piena. I soccorritori già da giorni avevano iniziato a rimuovere quella massa enorme di materiali, e noi ci unimmo a loro, ma la sensazione spalando era quella di svuotare il mare con un cucchiaio. C’erano anche i proprietari, che speravano di recuperare alcune delle loro cose, sia quelle di valore affettivo che quelle diciamo di valore economico. Poteva trattarsi di una pentola o un giocattolo, nel mezzo di quella grande distruzione era una piccola gioia, ogni volta che si trovava qualcosa, per chi ripescava l’oggetto dalle macerie e per chi ritrovava un pezzettino, magari minuscolo, di una vita portata via forse per sempre. Non scorderò mai quella gente, provata dalle distruzioni, dai lutti (anche chi non ne aveva avuto in famiglia, in un paese così piccolo si conoscono tutti), dalla fatica, dall’angoscia per il domani, che volle a tutti i costi offrircì un caffè per ringraziarci, malgrado i nostri dinieghi e i nostri sensi di colpa a prendere qualcosa da chi aveva perso quasi tutto. Fu una esperienza umana straordinaria, che non potrò mai dimenticare e che rafforzò ancor più il mio affetto per le Alpi Apuane e le genti che le abitano. Sono tornato più volte a Cardoso negli anni a seguire, man mano che il paese veniva ricostruito. E c’è l’ha fatta a rinascere, anche bene, tanto che la ricostruzione sua e del resto della Valle del Vezza (senza dimenticare Fornovolasco) è considerata un modello, il “modello Versilia”, da imitare. Ora a Cardoso non ci sono case sul greto dei torrenti, gli alvei sono allargati, lungo i canali che scendono ripidi dal Forato e dalla Pania ci sono le “briglie” (enormi sistemi di reti e di muri di sostegno) a ritenere sassi e tronchi e a cercare di smorzare eventuali onde di piena paragonabili a quella del 1996. Cardoso è rinata, attorno alla chiesa che divenne il “faro” della ricostruzione, e come Cardoso sono rinate Ruosina, Seravezza, Pomezzana e, verso la Garfagnana, Fornovolasco, dove la Grotta del Vento continua a richiamare turisti e i ristoranti sono sempre affollati, nei weekend, di persone alla ricerca delle buona e genuina cucina “di terra” (con farro e funghi grandi protagonisti), proposta a prezzi introvabili nelle grandi mete turistiche. I sentieri sono stati risistemati e le Apuane sono tornate il paradiso di chi ama la natura e la montagna, ma l’alta Versilia e chi, come il sottoscritto, le vuole bene non scorderanno mai quel brutto giorno di giugno. Cerca per tag: meteo clima Pubblicato da Giovanni Staiano Inizio Pagina

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