Il processo di scongelamento rilascia gas serra in diverse aree dell’Artico, esacerbando gli effetti del cambiamento climatico. Il permafrost è quella parte di terreno che rimane a temperature pari o inferiori allo zero per almeno due anni consecutivi e di solito è presente in Paesi come l’Alaska, la Siberia e la Scandinavia settentrionale, oppure ad alta quota come nelle Ande, sull’Himalaya e nelle Alpi.
Si consideri che circa la metà del carbonio organico contenuto al di sotto della superficie terrestre si trova immagazzinato nel permafrost. Una quantità che è più del doppio del carbonio emesso in atmosfera sotto forma di CO2 e gas metano. Anche se il permafrost non può essere misurato direttamente dallo spazio, fattori quali la temperatura della superficie, la copertura del suolo, parametri riguardanti la neve, l’umidità del suolo e variazioni morfologiche del terreno possono essere catturate dai satelliti.
“Combinando le misurazioni sul campo con tecniche di telerilevamento e utilizzando modelli climatici, possiamo migliorare la nostra comprensione circa i complessi processi che interessano le regioni ove è presente il permafrost e potremo migliorare le proiezioni sul clima del futuro”, ha detto il dottor Hans-Wolfgang Hubberten, capo dell’Unità Alfred Wegner Institute Research (Germania) e Presidente della Associazione Internazionale Permafrost.
Il mese scorso, oltre 60 scienziati del permafrost si sono riuniti per il Terzo Workshop User Permafrost presso l’Alfred Wegener Institute di Potsdam, in Germania, per discutere le loro ultime scoperte. “I prodotti già disponibili forniscono ai ricercatori importanti set di dati che possono essere utilizzati in aggiunta ad altri dati climatici e idrologici”, ha detto il dottor Leonid Bobylev, il direttore del Centro Nansen a San Pietroburgo.
L’analisi del permafrost proseguirà alacremente nei prossimi mesi e si cercherà di comprendere quale sia la quota di gas serra effettivamente immessa in atmosfera.