Il ghiaccio, nell’Artico, è sempre meno. Qualcuno potrà dire: chi se ne frega? Beh, forse ci si dovrebbe documentare un po’, perché gli effetti sulla condizioni meteorologiche del Continente Europeo saranno sempre più evidenti.
Per chi ancora non lo sapesse, la superficie della banchisa artica ha toccato, nel mese di settembre, il livello minimo da quando sono iniziate le misurazioni satellitari: 3410 mila chilometri quadrati. Un valore che ha demilito il record negativo precedente, risalente al 2007, quando all’epoca la superficie di ghiaccio superò di poco i 4000 mila chilometri quadrati.
Per chi non è esperto del settore è difficile dare un peso ad un valore dato così, nudo e crudo. Ecco perché il direttore del Dipartimento di Geografia presso l’Università di Calgary (Canada), John Yacekl, ha deciso di illustrare la situazione dando maggior rilievo alle rilevazioni satellitari. Utilizzando gli strumenti dell’agenzia spaziale americana (la NASA) ha esaminato le proprietà fisiche del ghiaccio negli ultimi 30 anni.
Proporzioni inverse
Nel 1980, la percentuale di fusione durante la stagione estiva ammontava al 20%, ciò significa che in loco permaneva l’80% del ghiaccio marino. Nell’arco di un ventennio la situazione si è capovolta. L’80% del ghiaccio si sta fondendo e solo il 20% persiste sul posto. Yackel, come altre autorevoli studio, ritiene che se il tasso di fusione rimarrà invariato, in estate assisteremo alla completa fusione della banchisa artica nel giro di 20-25 anni (se non addirittura prima).
La fusione dei ghiacci artici avrebbe gravi conseguenze per il pianeta. L’Artico si comporta come uno specchio, ovvero grazie all’effetto albedo del ghiaccio riflette verso l’atmosfera la radiazione solare, contribuendo così a regolare la temperatura della Terra.
“Quando il ghiaccio non ci sarà più, l’acqua assorbirà una maggiore quantità di calore e verrà indotto il processo di evaporazione. L’aumento del vapore acqueo in atmosfera determina un aumento del numero e dell’intensità delle tempeste, soprattutto nell’emisfero settentrionale. Un processo che causerà, secondo gli studiosi, frequenti inondazioni e altre calamità naturali, soprattutto nelle zone più densamente popolate del mondo”, sostiene Yackel.