Stiamo assistendo in questi giorni a quanto sia consistente l’energia che la Terra riesce a liberare in pochi attimi per effetto dei naturali dinamismi che la caratterizzano. Il maremoto del Sud-Est Asiatico ci fa capire, ed è bene sottolinearlo, che l’uomo è solo una piccola parte del mondo naturale che ci ospita, anche se al tempo stesso è capace di generare intense pressioni sull’ambiente riuscendo a condizionare con le sue attività le diverse scale gerarchiche di uno stesso ecosistema.
Gli eventi naturali estremi diventano causa di devastazioni umane ma in realtà lo sono soltanto in misura apparente. In Italia siamo ormai abituati a sentire parlare di pericolo e di rischio frane, allagamenti, smottamenti non appena inizia la stagione autunnale e invernale, quando le piogge si fanno più intense. Ma cosa si intende realmente per pericolosità e rischio e come sono connessi questi due concetti con le attività umane?
Si definisce, dunque, pericolosità, la probabilità che si verifichi un evento calamitoso naturale e dipende dalle caratteristiche geologiche dell’area colpita, per cui è qualcosa di intrinseco al sistema su cui l’uomo non può intervenire attivamente.
Il rischio invece è qualcosa di diverso poiché lo si può definire come il prodotto di tre fattori: pericolosità, vulnerabilità e valore del territorio. Il valore è dato dalla presenza di popolazione umana, centri abitati, industrie, parchi naturali, beni paesaggistici e architettonici. La vulnerabilità, è la percentuale di danno registrabile in seguito ad un evento calamitoso ed è l’unico fattore su cui l’uomo può intervenire attraverso la messa a punto di sistemi che permettano di mitigare il rischio stesso, come gli strumenti di allerta per l’evacuazione immediata delle persone. E’ evidente quindi come il rischio si produce consecutivamente rispetto ad un pericolo preesistente che nella maggior parte delle volte viene spesso ignorato.
Il caso del Sud-Est Asiatico è un esempio eclatante: i maremoti non sono una novità, rappresentano un pericolo reale e assolutamente naturale, ma il tutto diventa a rischio elevato poiché le coste di quei paesi sono densamente popolate. Allora verrebbe da porsi una domanda: perché costruire villaggi turistici per gli occidentali e lasciare le popolazioni locali prive di qualsiasi sistema di difesa e prevenzione del rischio da terremoti e maremoti? Sarebbe più giusto investire per aiutare le poco fortunate popolazioni del luogo ad affrontare le problematiche connesse alle calamità naturali, piuttosto che sprecare danaro per innalzare alberghi e centri vacanze, i quali inevitabilmente prima o poi vengono cancellati dal dinamismo della natura.
E’ necessario cambiare al più presto il modo di porsi nei confronti degli eventi naturali e cercare di capire che la scala temporale della vita e delle attività umane non è semplicemente contenuta all’interno di quella naturale ma si interseca con essa su più livelli mostrando interazioni complesse, ma talvolta prevedibili. Ciò che è accaduto nei paesi asiatici dovrebbe servire da insegnamento affinché ci sia una corretta gestione del territorio: basta pensare ai diversi rischi a cui sono sottoposte alcune aree italiane, ad esempio la zona attorno al Vesuvio, il caso di Sarno, o recentemente il caso della Sardegna, colpita da insistenti piogge. Dovremmo capire che non possiamo porre dei limiti ai naturali modi con cui la natura libera la sua energia e che gli eventi rari e intensi non indicano qualcosa di inesistente: qualche giorno fa accadeva qualcosa di “impensabile”, nevicava in Messico al livello del mare!