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Clima impazzito, Mediterraneo a rischio uragani. Chi lo dice?

di Ivan Gaddari
21 Set 2013 - 11:23
in Senza categoria
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Ieri proponemmo, scatenando un’accesissima discussione, un articolo che proponeva alcune tesi “estremiste” sul trend climatico della prossima stagione invernale. Siamo stati tacciati di “terrorismo meteorologico”, di implementare la disinformazione, siamo persino stati paragonati a dei personaggi che mirano alla spettacolarizzazione della meteo per il semplice ritorno economico. Or bene, forse chi ha mosso queste accuse s’è limitato semplicemente alla lettura del titolo e ha trascurato il contenuto. Se si fosse preso la briga di leggere qualche riga in più, si sarebbe accorto che si trattava di tesi di illustri esponenti della Comunità Meteorologica Mondiale. Non certo le nostre. Ed è per questo che vi invitiamo alla lettura approfondita dell’articolo odierno, perché leggere soltanto un titolo è certamente fuorviante.

L’argomento di oggi è in un certo qual modo riconducibile a quello di ieri: il cambiamento climatico. Rimpicciolendo la scala d’osservazione, limitandola al Mediterraneo, c’è chi sostiene che nei prossimi anni potrebbero addirittura svilupparsi degli uragani. Beh, detta così ci sarebbe davvero di ché preoccuparsi, ma forse chi ha scelto di utilizzare il termine rappresentante un fenomeno meteorologico estremo appartenente all’Atlantico, lo ha fatto con l’intento di catturare l’attenzione del lettore in cerca del sensazionalismo estremo.

Abbiamo constatato, successivamente, che il riferimento era ai cosiddetti Medicanes – quelli che in tanti considerano come gli Uragani del Mediterraneo – ovvero un Ciclone Mediterraneo somigliante in tutto e per tutto ai Cicloni di origine Tropicale. La loro genesi è riconducibile al surplus termico delle acque superficiali, trasformato velocemente in energia cinetica all’interno di un moto vorticoso dell’aria. Sono strutture riconoscibili dalla struttura nuvolosa a spirale e dal tipico “occhio del Ciclone”, ben visibile nelle immagini satellitari. Manifestazioni di questo genere – che comunque risultano assai rare – possono provocare venti tempestosi e piogge torrenziali. E più facile osservare tempeste dalle sembianze tropicali, ma affinché evolvano in ciclonici servono particolari condizioni a contorno.

Ben altra cosa sono le alluvioni lampo. Queste, sì, possono scatenarsi all’improvviso e senza alcun preavviso. Spesso sono riconducibili a vaste strutture temporalesche, capaci di scaricare al suolo enormi quantitativi d’acqua nell’arco di poco tempo. Anche in questo caso concorre al loro sviluppo il surplus termico delle acque mediterranee, cresciuto in modo preoccupante a causa delle frequenti ondate di caldo africano. Eppure ci sorge un dubbio. Ma non è che la colpa di tutto ciò è la nostra? Ma non è che certi fenomeni si manifestavano anche in passato non causando i disastri osservabili ultimamente? Non è che forse la struttura idro-geologica del nostro Paese è mutata?

Domande del tutto lecite e che forse meriterebbero risposte articolate, meno generaliste. Spesso ci sentiamo dire che è colpa dei cambiamenti climatici, forse è davvero così, ma se l’incuria dell’uomo evitasse di sfruttare – male – il suolo del nostro bel Paese, forse saremo qui a discutere di eventi atmosferici del tutto normali. Non stupiamoci, quindi, se “il piano nazionale di adattamento al mutamento climatico è fermo al Cipe dal 2012: senza il via libera sui fondi il progetto è paralizzato”, ricorda il ministro dell’Ambiente Andrea Orlando. “Noi abbiamo predisposto la parte scientifica. Inoltre sono pronte anche le misure per limitare il rischio attraverso la demolizione delle costruzioni abusive in zone a rischio idrogeologico. Ma serve una disponibilità finanziaria per poter agire a tutto campo”.

Misure che necessitano di un budget pari a 40 miliardi in 15 anni: il 40% fornito dalla spesa pubblica, il resto derivante da un sistema basato sul credito di imposta per gli investimenti. Lecito domandarsi, come hanno fatto alcuni, se in tempi di crisi economica è possibile disporre di tali cifre. Ecco come risponde il Direttore Generale del Ministero dell’Ambiente, Corrado Clini: “semmai è vero il contrario: è rinviare che costa. Non agire significa continuare a spendere fino a 3 miliardi di euro l’anno per i danni causati dagli eventi estremi. Investire un miliardo l’anno in prevenzione, un impegno che secondo le indicazioni europee può essere escluso dal patto di stabilità, vuol dire dunque guadagnarne due, per non parlare del risparmio in termini di vite umane”.

Soldi, spese, cambiamenti climatici. Tante parole, pochi fatti. Quanti altri disastri dovranno accadere prima che si prenda consapevolezza della situazione? Prima che si capisca che il clima, forse, ci sta semplicemente avvisando che così non si può andare avanti e che gli strumenti per rimettere a posto le cose ci appartengono? E lasciamo perdere gli uragani, quelli sono ben altra cosa e nulla hanno a che fare con l’imperizia e l’incuria dell’uomo.

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