Oggi, attraversando la Pianura Padana, pur prestando attenzione alle caratteristiche del paesaggio, non capita spesso di avvistare grossi erbivori al pascolo.
Le logiche della zootecnia industriale prevalenti, anche in questa grande valle iperantropizzata, impongono di recludere i milioni di grossi bovini presenti1 in spazi angusti in modo da economizzare gli spazi e massimizzare la produttività.
Abbandoniamo però, per un attimo, la desolazione dei capannoni odierni e cerchiamo di immaginare quale paesaggio dovevano offrire questi stessi luoghi alla vigilia della stagione estiva circa 190 secoli or sono, all’inizio dell’ultima deglaciazione del Plesitocene: mandrie di bisonti delle steppe2 al pascolo in un mare d’erba e fiori.
Il poderoso bovide, i cui esemplari maschi raggiungevano i 2m al garrese possedeva corna la cui apertura arrivava a misurare fino a 120cm. La sua presenza era decisamente in armonia con un ambiente caratterizzato da una steppa fredda e arida con temperature medie annue inferiori di circa 10°C rispetto a quelle attuali.
All’epoca la corrente a getto dell’emisfero boreale si divideva in due rami che scorrevano ai margini della calotta glaciale euroasiatica relegando le perturbazioni atlantiche ai margini del continente. In inverno le precipitazioni erano decisamente scarse, con l’arrivo dei mesi più caldi, invece, i corsi d’acqua si gonfiavano sia per lo scioglimento di enormi quantità di neve e ghiaccio che per il ritorno delle piogge.
In questo contesto caratterizzato, quando il suolo non era innevato, da semideserti ad artemisia e arbusteti, trovavano rifugio anche altri erbivori di grossa taglia come il mammut3, il rinoceronte lanoso4, l’alce e il cavallo. Numerosi, ovviamente, anche i predatori tra i quali, solo per citarne alcuni, il leone delle caverne5, il lupo, l’orso delle caverne6 e il ghiottone. Mentre, però, le specie animali menzionate sarebbero andate incontro a un rapido declino, un’altra specie, presente in Europa soltanto da pochi millenni, avrà ben altro destino: i nostri progenitori, infatti, dopo il loro arrivo in Europa avevano avuto un ampia diffusione soppiantando in poco tempo i nostri cugini (Homo neanderthalensis) e riuscendo a popolare il continente con una distribuzione relativamente continua caratterizzata da una fitta rete di interscambio etnico e culturale a cui corrispose, inizialmente, la cultura7 dell’Aurignaziano, rimpiazzata poi progressivamente da quella Gravettiana. Nonostante le incredibili capacità di adattamento di Homo sapiens, che, sfidando la sua origine africana, aveva colonizzato l’Europa in piena glaciazione, la sua popolazione aveva subito un drastico ridimensionamento in corrispondenza del periodo di massimo glaciale contraendosi verso i cosiddetti rifugi glaciali delle coste dell’Europa meridionale.
Il frazionamento antropico che ne conseguì determinò un elevato grado di isolamento genetico e comunicativo dei nuclei sopravvissuti favorendo una crescente differenziazione etnica8 e culturale che corrispose all’affermarsi della cultura solutreana nel rifugio Franco-Cantabrico mentre la tradizione precedente sopravviveva fra gli abitanti di Italia, Penisola Balcanica e Mar Nero, dove si impose l’Epigravettiano.
Non sappiamo esattamente se e quale fosse la presenza antropica in Valpadana in questo periodo ma possiamo ipotizzare l’eventuale sporadica apparizione di esigui gruppi di cacciatori di mammiferi di grossa taglia, come coloro che utilizzarono come ricovero temporaneo, durante le battute di caccia, la Grotta di Paina, sui Colli Berici, circa mille anni più tardi.
L’emisfero boreale, come già accennato, continuava allora a essere caratterizzato da immense calotte glaciali che si estendevano fino alle medie latitudini e l’enorme massa di acqua imprigionata allo stato solido aveva determinato un marcato abbassamento del livello del mare che risultava di oltre centro metri inferiore rispetto a oggi facendo si che il Po sfociasse in prossimità dell’attuale costa abruzzese.
Nella gelida steppa padana 19mila anni fa, però, le cose stavano cambiando, il livello del mare era tornato a crescere, gli inverni, pur paragonabili agli odierni inverni moscoviti, stavano perdendo progressivamente quell’estremo rigore che li aveva caratterizzati nei millenni precedenti mentre le precipitazioni annue subivano un progressivo incremento e l’enorme calotta glaciale alpina, le cui propaggini lambivano la pianura, stava subendo un parziale collasso conseguente alla deglaciazione nei settori più avanzati di anfiteatro e dei grandi laghi.
La vegetazione arborea pioniera formata da alberi di conifere (pino cembro, larice, pino silvestre e peccio9) e alcune latifoglie (betulle10, ontano verde, olivello spinoso, salici e ranno alpino) conosceva perciò una fase di espansione determinando, da una parte, un aumento del tasso di afforestamento nelle zone dove gli alberi erano già presenti (come i versanti umidi e le aree perifluviali e risorgive) mentre dall’altra la colonizzazione di nuovi ambienti come le aree di anfiteatro liberate dai ghiacciai.
Ma quali meccanismi stavano causando quel processo globale di riscaldamento che in un centinaio di secoli avrebbe riportato le temperature su valori analoghi a quelli odierni determinando la fine dell’ultima grande glaciazione?
C’è un ampio consenso nell’attribuire le cause delle glaciazioni succedutesi nel era Quaternaria alle variazioni cicliche dell’orbita terrestre amplificate dai feedback in termini di effetto albedo e variazioni nella concentrazione dei gas serra.
Ma se quelle verificatesi nel Pleistocene inferiore11 sono dominate da una periodicità pari a circa 41mila anni, le ultime 7 glaciazioni, verificatesi successivamente mettono a dura prova la teoria astronomica delle glaciazioni esibendo, invece, una periodicità, di più difficile interpretazione, pari a circa 100mila anni.
Se l’ampiezza teorica del forcing, in termini di insolazione, derivante dai fenomeni di inclinazione assiale (con ciclo pari a circa 41mila anni) e precessione degli equinozi (19/23mila anni) è coerente con quanto emerge dai carotaggi, le variazioni di insolazione generate con un ciclo di 95/136mila anni, associabile cronologicamente con i cicli glaciali degli ultimi 900mila anni, non sembrano, infatti, avere un impatto sufficiente per poter giustificare l’innesco o la terminazione di un periodo glaciale, avendo infatti, un impatto sul forcing solare decisamente inferiore.
Alcuni12 hanno tentato di risolvere il cosiddetto problema dei 100mila anni chiamando in causa il meno conosciuto dei moti orbitali terrestri, ovvero l’inclinazione orbitale, avente anch’essa un ciclo analogo a quello delle glaciazioni. L’effetto dell’inclinazione orbitale sul clima terrestre non agirebbe tramite l’insolazione ma sarebbe determinata dalla presenza di un disco di polvere e altri detriti in corrispondenza del piano invariante del sistema solare.
Diverso, invece, lo schema interpretativo proposto dai sostenitori della cosiddetta ipotesi dell’insolation canon13 che, richiamandosi al concetto di canone, proprio della musica classica14, delineano un convincente modello esplicativo delle dinamiche orbitali che starebbe alla base delle deglaciazioni.
Basandosi sull’analisi delle serie storiche dei livelli di insolazione (stimati alle latitudini di 65° in entrambi gli emisferi relativamente al solstizio d’estate) derivante dalla soluzione astronomica per i parametri orbitali terrestri15, vengono individuate due condizioni il cui verificarsi congiunto determinerebbe l’innescarsi di un processo di deglaciazione.
Il meccanismo individuato prevede che, dopo aver toccato un minimo l’insolazione di inizio estate dell’emisfero australe torni a crescere iniziando un nuovo ciclo. Dopo alcuni millenni anche l’insolazione di inizio estate dell’emisfero boreale tocca un minimo iniziando a sua volta a crescere all’unisono con quanto avviene nell’altro emisfero.
Per essere sufficiente ad attivare una deglaciazione tale eccezionale periodo di crescita contemporanea delle insolazioni in entrambi gli emisferi deve protrarsi per almeno un millennio mentre, d’altra parte, l’energia aggiuntiva totale fornita come risultato delle due crescite deve eccedere la soglia degli 0,95 TJ m-2.
Con questo criterio si individuano 7 momenti di inizio deglaciazione verificatisi rispettivamente 23, 139, 253, 345, 419, 546 e 632mila anni or sono, sorprendentemente in linea con i riscontri geologici.
Dunque 19mila anni fa il processo di deglaciazione era stato irreversibilmente innescato, nonostante gli intensi periodi di recrudescenza glaciale16 durante i quali i ghiacci tornarono prepotentemente ad avanzare, la strada era segnata in analogia con quanto successo anche le altre volte.
Stavolta però, la progressiva mitigazione del clima non si risolverà nella consueta espansione verso nord delle specie più termofile, questa volta l’inizio della deglaciazione porterà un depauperamento generalizzato della biodiversità, la sesta grande estinzione di massa, di cui saranno vittima, in un primo tempo, alcuni grandi mammiferi dell’Euroasia e del Nord America per poi proseguire, in modo più generalizzato su tutto il pianeta fino ai giorni nostri.
L’immagine livida dell’intercedere delle sagome di lanosi pachidermi che, in lenta processione e avvolti dalla tormenta di neve, avanzano sotto l’occhio vigile, in quel paesaggio opaco e ovattato, di lupi stremati da fame e gelo speranzanzosi di potersi avventare di soppiatto su qualche cucciolo rimasto isolato evitando la reazione degli adulti, non apparterrà alla glaciazione prossima ventura.
fonti di informazioni:
https://news.meteogiornale.it/media/2021/05/echo/Vostok-ice-core-petit.png
https://muller.lbl.gov/papers/nature.html
https://it.wikipedia.org/wiki/Ipotesi_genetiche_sul_popolamento_dell%27Europa
https://62.77.55.137/site/Scuola/nellascuola/area_biologia/archivio/viaggio/ravazzi.htm
1) Tra le razze più diffuse la “Frisona italiana” e la “Bruna”.
2) Il bisonte delle steppe (Bison priscus), attualmente estino, è l’antenato diretto sia del bisonte europeo (Bison bonasus) che di quello americano (Bison bison). Questo bovide, diffusosi in Europa, circa 400mila anni fa, si estinse nel tardo Pleistocene e fu rimpiazzato dal bisonte europeo. Il bisonte europeo, che a differenza del suo progenitore ama gli ambienti forestali, sfiorò l’estinzione allor quando, il 21 Febbraio 1919, fu abbattuto l’ultimo esemplare presente nella foresta di Bialowieza. Successivamente grazie alla presenza di numerosi individui in cattività e al miracoloso successo del programma di ripopolamento, la specie fu salvata e attualmente circa 1000 bisonti europei vivono liberi in alcune zone di Polonia, Bielorussia, Ucraina e Lituania.
3) Il termine mammut indica un genere di proboscidati comprendente numerose specie oggi tutte estinte. Originatosi dal mammut delle steppe (Mammuthus trogontherii), il mammut lanoso (Elephas primigenius) popolava vaste zone dell’Euroasia nel periodo descritto. Gli ultimi mammut lanosi, la sottospecie pigmea dell’isola di Wrangel, a largo della Siberia, si estinsero, in epoca storica, solo intorno al 1500 a.C. probabilmente in conseguenza dell’arrivo dell’uomo anche in quest’ultimo rifugio.
4) Il parente più prossimo di Coelodonta antiquitatis è l’attuale rinoceronte di Sumatra (Dicerorhinus sumatrensis).
5) Il leone delle caverne, Panthera leo spelaea, già diffuso in altre parti dell’emisfero boreale il leone delle caverne entrò in scena in Europa all’inzio del Pleistocene medio con una specie gigante, Panthera leo fossilis, che raggiungendo l’altezza di 1,5m al garrese rappresenta il più grande felide mai esistito. Successivamente subentrò la forma Panthera leo spelaea di dimensioni più ridotte (1,3m al garrese e 300kg di peso), il “classico” leone delle caverne rappresentato dall’uomo nelle pitture rupestri. Con tutta probabilità, il leone europeo (Panthera leo europaea), scomparso dall’Italia verso il 20 a.C. ed estintosi definitivamente a causa della caccia eccessiva intorno all’anno 100 d.C., rappresenta una sottospecie del leone delle caverne. Allo stesso ceppo apparterrebbero anche il leone dell’Atlante o leone berbero (Panthera leo leo), il cui ultimo esemplare maschio fu abbattuto nel 1942 e il leone asiatico (Panthera leo persica) oggi in grave pericolo di estinzione e presente soltanto nel Parco nazionale Gir Forest in India.
6) L’Ursus spelaeus qui elencato nel gruppo dei predatori si era, in realtà, adattato a una dieta prevalentemente vegetariana da cui i molari particolarmente lunghi e le grosse dimensioni (3m di lunghezza, superando gli odierni grizzly e kodiak).
7) Il termine cultura qui sta a indicare la presenza di determinate tradizioni tecnologiche con particolare riferimento all’industria litica.
8) Le tracce genetiche di questa polarizzazione sono tuttora rintracciabili nel DNA dell’attuale popolazione europea. È ad es. il caso dell’aplogruppo R1b del cromosoma Y, originatosi forse tra Asia Centrale e Siberia Centromeridionale, che si crede oggi associato all’Uomo di Cro Magnon. L’isolamento ecologico occorso nel cosiddetto rifugio franco-cantabrico avrebbe consentito, per questo aplogruppo, di raggiungere una sufficiente omogeneità permettendo il verificarsi dei fenomeni genetici noti come “Effetto del fondatore” e “Collo di Bottiglia”. Oggi tale aplogruppo, il più comune in Europa occidentale, raggiunge frequenze massime in Irlanda, Galles e Paesi Baschi ma è riscontrabile in proporzioni minori, ma significative, anche in popolazioni come gli Uiguri (l’etnia turcofona della Cina nordoccidentale che avrebbe assorbito l’antico popolo indoeuropeo dei Tocari) e baschiri (etnia turcofona della Russia centrale). Uno o più rami isolati di cromosomi Y che appartengono all’aplogruppo R1b1 (p25) si trovano ad alte frequenze tra le popolazioni native del nord del Camerun e si crede possano riflettere una retro-migrazione preistorica di un’antica popolazione proto-euroasiatica in Africa. Quali siano, invece, gli aplogruppi attribuibili ai rifugi italiano e del Mar Nero è invece controverso.
9) Picea abies, noto anche col nome di abete rosso.
10) Betulla bianca, betulla pelosa o delle torbiere, mentre, negli anfiteatri del setto re occidentale fece temporaneamente la sua comparsa la betulla nana oggi del tutto assente.
11) In questo caso il riferimento è al periodo compreso tra 2 e 1,1 milioni di anni fa.
12) Richard A. Muller, Gordon J. MacDonald. Glacial cycles and orbital inclination. Nature 377, 107-8 (14 Settembre 1995).
13) Schulz, K. G., and R. E. Zeebe. Pleistocene glacial terminations triggered by synchronous changes in Southern and Northern Hemisphere insolation: The insolation canon hypothesis. Earth and Planetary Science Letters 249, 326-336 (2006).
14) Il canone in musica è una composizione contrappuntistica che unisce a una melodia una o più imitazioni, che le si sovrappongono progressivamente.
15) Laskar, J.; Robutel, P.; Joutel, F.; Gastineau, M.; Correia, A. C. M.; Levrard, B. A long-term numerical solution for the insolation quantities of the Earth. Astronomy and Astrophysics, v.428, p.261-285 (2004).
16) I riferimento è alle cronozone del Dryas antico, medio e recente.