E’ stata pubblicata da pochi giorni una letter dal titolo “Il rallentamento dei venti nell’emisfero Nord è in parte dovuto ad un aumento della scabrezza superficiale” che riporta come negli ultimi trent’anni – dal 1979 al 2008 – la velocità media dei venti di superficie alle medie latitudini dell’emisfero Nord sia diminuita dal 5 al 15%. Lo studio assume una certa importanza non tanto per i possibile effetti che tale diminuzione potrebbe avere sullo sfruttamento di energia eolica, quanto piuttosto sulla comprensione del sistema climatico e il perfezionamento di modelli globali: è noto che la velocità del vento incide sull’evaporazione e da anni quest’ultima sta diminuendo in molte regioni della Terra nonostante l’aumento della temperatura media.
Gli autori indicano alcune delle possibili cause di questo rallentamento elencando 3 possibili fattori: cambiamenti avvenuti nella circolazione atmosferica media, variazioni relative ad un aumento della scabrezza della superficie oppure errori di deriva strumentale. Solamente per la Cina è stato possibile individuare un indebolimento dei venti monsonici e una riduzione dell’irraggiamento solare (global dimming conseguente al forte inquinamento dell’aria) in grado di giustificare le variazioni rilevate, mentre per le altre regioni non si hanno ancora spiegazioni soddisfacenti.
Le procedure applicate per la convalida dei dati – ad esempio l’eliminazione di stazioni riposizionate o mancanti di troppi anni – hanno ridotto le oltre 10000 stazioni presenti nel database di partenza a 822, suddivise poi in quattro regioni: Nord America, Europa, Asia centrale e Asia orientale. Nel 73% delle stazioni sopravvissute alla scrematura la velocità media del vento a 10 metri di altezza è diminuita, da 0.07 a 0.16 m/s per decennio, comportando delle variazioni sui complessivi 30 anni indagati che vanno dal 10% fino al 20% in Asia centrale. D’altra parte i venti medi alle quote di 850, 700, 500 e 200 hPa non presentano trend di rilievo.
Se fosse vera l’ipotesi che tali riduzioni sono imputabili ad un rallentamento della circolazione atmosferica generale o ad un indebolimento dei sistemi meteorologici a scala sinottica, le reanalisi NCEP/NCAR oppure le ECMWF dovrebbe fornire una tendenza analoga, ma questo non accade; solamente le ECMWF ERA-Interim (disponibili a partire dal 1989 e quindi non per l’intero intervallo temporale studiato) mostrano una tendenza al calo, per una frazione che va dal 10 al 50% dei valori osservati. D’altra parte le reanalisi riescono ad individuare in modo molto preciso la variabilità interannuale, e questo fa pensare che i modelli non siano in grado di descrivere in modo adeguato i venti al suolo.
Anche la possibilità di errori strumentali – come un degrado progressivo delle caratteristiche degli anemometri – risulta poco credibile, dato che gli strumenti vengono continuamente sostituiti e il trend in calo è maggiore per i venti più forti; analogamente sono da escludere biases derivanti da trattamenti particolari dei dati, essendo la diminuzione della velocità media un fatto graduale nell’arco dei trent’anni esaminati. Per tali ragioni gli autori suppongono che un ruolo determinante possa essere dovuto a cambiamenti nella scabrezza superficiale, dovuti all’urbanizzazione, alla crescita delle foreste o ad una diversa distribuzione delle stesse, oppure ancora a variazioni nelle pratiche agricole.
Al fine di capire il punto fondamentale dello studio è necessaria ora una breve digressione.
Quando si è in presenza di moto relativo fra un fluido e un solido, in corrispondenza dell’interfaccia si instaura quello che viene definito “strato limite”: si tratta di uno spessore all’interno del quale la velocità del fluido varia da zero, a contatto con il solido, fino al valore costante che assume ad una certa distanza, detto indisturbato. Il modo in cui si passa da zero alla velocità indisturbata – quello che si definisce profilo di velocità – dipende in generale dalle caratteristiche del fluido e della superficie, e in particolare dalla sua rugosità.
E’ intuitivo capire come superfici relativamente “lisce” frenino di meno il vento rispetto ad altre che presentino asperità di dimensioni maggiori; in effetti dal punto di vista fisico si parla di scabrezza, intendendo con tale termine una lunghezza rappresentativa dello stato superficiale, che però non va intesa come l’altezza degli ostacoli realmente presenti: per esempio, una superficie ghiacciata ha una scabrezza tipicamente pari a 5 millimetri, ad un’area coltivata senza alberi si può assegnare un valore di 10 centimetri, mentre per aree urbane e foreste irregolari si arriva al metro.
Gli autori hanno valutato gli effetti di un aumento della scabrezza tramite il modello regionale a mesoscala MM5, osservando che raddoppiandone il valore si potevano ottenere effetti sulla velocità media al suolo in linea con quanto registrato dai dati raccolti; nell’Asia centrale però sarebbe necessario ipotizzare addirittura una scabrezza triplicata rispetto ai valori di riferimento usati nella simulazione di controllo, un’ipotesi poco realistica. Osservando che dalle misure satellitari degli ultimi due decenni – tramite l’indice NDVI – si può dedurre un aumento della superficie coperta da foreste in alcune zone dell’emisfero settentrionale, è stato possibile stimare tramite semplici modelli l’incremento di scabrezza relativo;
nel caso della Russia i cambiamenti avvenuti possono spiegare dal 25 al 40% del rallentamento verificatosi, e per la Cina addirittura dal 40 al 60%.
Naturalmente altri fattori sono in grado modificare il profilo di velocità, come ad esempio la turbolenza generata durante le ore più calde della giornata, quando l’aria a contatto del suolo si riscalda e sale per differenza di densità (provocando un uguale ed opposto flusso discendente). Tuttavia i dati mostrano che il trend in calo è praticamente sempre lo stesso nell’arco delle 24 ore, suggerendo che la vegetazione possa veramente essere un fattore fondamentale.
Come detto all’inizio, i timori di una possibile ricaduta sulla produzione di energia eolica sono poco fondati sebbene la riduzione della velocità sia stata maggiore per i venti più forti: la maggior parte delle turbine oggi supera i 100 metri di altezza, dove la diminuzione dei venti è molto più modesta di quella avvenuta al suolo; il problema poi sarebbe completamente assente per le installazioni offshore. I risultati dello studio dovranno essere confermati da ulteriori analisi che tengano in considerazione altri fattori in grado di influenzare i venti al suolo, tuttavia la prospettiva di dover eventualmente controllare localmente l’utilizzo del territorio è di gran lunga preferibile al rimanere in balia della circolazione atmosferica su larga scala.
Riferimenti: Northern Hemisphere atmospheric stilling partly attributed to an increase in surface roughness,
Robert Vautard, Julien Cattiaux, Pascal Yiou, Jean-Noël Thépaut & Philippe Ciais,
Nature Geoscience (2010) doi:10.1038/ngeo979