“Tutti i governi del mondo sono d’accordo sul fatto che la temperatura media del pianeta non deve aumentare di oltre due gradi”. Sono queste le parole di Ban Ki-moon, Segretario Generale delle Nazioni Unite, diffuse stamane dalle agenzie di stampa di mezzo mondo, in apertura della Conferenza di Copenhagen. E’ questo il diktat che abbiamo deciso di dare al clima? “La temperatura non deve aumentare” non lascia scampo ad alternative, non è una dichiarazione d’intenti, è un ordine. Non sappiamo se siano state proprio queste le parole pronunciate da Ban Ki-moon, non di rado gli organi di stampa forzano le dichiarazioni dell’intervistato di turno portandole ad un significato diverso dall’originale. Ma davvero l’uomo può avere la capacità di controllare i cambiamenti climatici? Proviamo a partire da lontano.
Da molto lontano, dall’inizio dell’Olocene. L’Olocene è la più recente delle ere geologiche della terra, quella in cui si è sviluppata la civiltà umana e in cui viviamo attualmente. Essa ha preso inizio, circa 12 mila anni fa, con la fine della Glaciazione di Wurm, l’ultima tra le tante che hanno caratterizzato il clima della terra nel lontanissimo passato, e che ha a sua volta messo termine al Pleistocene. L’Olocene, secondo le più accreditate ricostruzioni climatologiche, è stato ed “è” caratterizzato da fluttuazioni termiche moderate. Unica eccezione il periodo denominato Dryas Recente (Younger Dryas), nella fase di transizione dal Pleistocene all’Olocene, in cui, per cause ancora non del tutto chiare, il clima si raffreddò repentinamente per un periodo di circa 1000 anni, ma con un innesco, sia del raffreddamento, che del successivo riscaldamento, avvenuto presumibilmente in pochi decenni. Sulle variazioni climatiche del Dryas Recente esistono pubblicazioni scientifiche ed un consenso, tra i paleoclimatologi, piuttosto ampio.
In seguito l’Olocene ha visto variazioni termiche molto contenute, ma si sono comunque alternati periodi più freddi ad altri più caldi. Soltanto nell’ultimo millennio, dunque in tempi storici recenti, troviamo il Periodo Caldo Medievale (PCM o MWP – Medieval Warm Period) e la Piccola Era Glaciale (PEG o LIA – Little Ice Age): il primo, tra l’800 e il 1300, in cui si ipotizza che la temperatura fosse all’incirca come quella attuale; la seconda, tra il 1400 e la fine del 1800, in cui la terra, in particolare l’emisfero nord, per cause probabilmente legate ad un prolungato minimo solare unito ad un’elevata attività vulcanica, piombò in un periodo caratterizzato da inverni spesso rigidi e da estati molto variabili, non di rado fredde. Anche su queste ultime variazioni climatiche esiste ampio consenso scientifico, consenso che viene meno però quando si cerca di quantificarle. Per alcuni furono poco marcate, vedasi studi (contestati) che sono alla base del cosiddetto Hockey Stick, per altri assai di più. Ciò che non viene discusso è il successivo riscaldamento climatico, quello attuale, e che ha preso inizio con lo sviluppo della civiltà industriale, ormai noto con il termine Global Warming.
Da questo brevissimo – e sicuramente incompleto – excursus nel clima degli ultimi millenni, abbiamo imparato due cose, su cui c’è ampissimo consenso scientifico: innanzitutto che il clima cambia, lo fa in maniera naturale e in maniera più o meno ampia, fin dall’inizio dei tempi. Cambia per motivi legati all’intensità dell’energia che riceve dal sole, per modifiche dei movimenti orbitali, per le variazioni nella composizione dell’atmosfera e della biosfera, per eventi “traumatici” interni al sistema terra come le eruzioni vulcaniche, o esterni, come gli impatti di meteoriti; in secondo luogo, come insegna il periodo del Dryas Recente, che questi cambiamenti possono essere repentini.
Con le nuove conoscenze acquisite possiamo affermare, senza timore di essere smentiti, che il clima, anche in assenza di interventi umani, è un sistema intrinsecamente instabile, soggetto a numerosissime variabili e forzanti. Non è dunque vero che sta cambiando solo negli ultimi decenni. Il clima cambia – più o meno – da sempre.
Torniamo dunque all’ultima fase di riscaldamento globale. Essa rientra, sia da un punto di vista temporale che quantitativo, nelle normali fluttuazioni climatiche che si sono avute sulla terra nel corso dell’ultima era geologica. Non possiamo però ignorare una “coincidenza”: per la prima volta nel corso della vita della terra, essa avviene in un periodo storico in cui l’uomo è in grado di modificare sensibilmente la composizione della biosfera e dell’atmosfera, ovvero due degli elementi che possono “forzare” il clima. Il Global Warming attuale ha infatti avuto inizio nella seconda metà del XIX secolo, in contemporanea con l’inizio dell’era industriale e del boom demografico. Solo una coincidenza?
Negli ultimi 20/30 anni la teoria secondo la quale questa ultima fase di riscaldamento climatico sarebbe di causa antropica ha preso il sopravvento. E’ una teoria scientifica dalle basi solide, che fa perno sulle proprietà di alcuni gas emessi dai processi di combustione, tra cui l’anidride carbonica (CO2) e il metano (CH4), di aumentare l’effetto serra naturale, causato in gran parte dal vapore acqueo, e di modificare così, in positivo, il bilancio radiativo terrestre. Se i meccanismi di forcing rispetto al bilancio energetico terrestre dati da questi gas sono ormai ben compresi, ben più difficile è comprendere l’impatto reale sul clima di un aumento della loro concentrazione. Su questo aspetto si possono fare stime, simulazioni, si possono sviluppare tesi anche largamente condivise e con buone possibilità che si avvicinino al vero, ma non c’è nessuno in grado di dire con assoluta certezza, senza dubbio alcuno, di quanto la temperatura della terra aumenta all’aumentare di una certa quantità del gas X (CO2, CH4 o altri).
Purtroppo però, da teoria scientifica con basi solide e largamente condivisa, ma pur sempre teoria, il Global Warming di origine antropica è diventato dogma indiscusso, passando dallo status di scienza a quello di religione. Tanto che oggi (ndr. ieri per chi legge) 56 giornali di 45 paesi (come riportato su “Repubblica”) titolano: “Clima, ci resta poco tempo […] Sulle pubblicazioni scientifiche la domanda non è più se la causa sia imputabile agli esseri umani, ma quanto è breve il tempo che abbiamo ancora a disposizione per contenere i danni […] Il cambiamento climatico è stato prodotto nel corso di secoli, ha conseguenze che dureranno per sempre…”. Propaganda, battage pubblicitario, catastrofismo, non sappiamo quali altri termini usare per indicare un simile insieme di banalità atte a creare facili suggestioni. E si rincara la dose pubblicando studi di scenari catastrofisti riguardo la crescita del livello dei mari (che per ora a dispetto di tutto cresce in modo lievissimo), paventando la sparizione di Manhattan, di Venezia, degli Atolli ecc. ecc. Ci viene in mente un termine, utilizzato in Italia negli anni che furono del terrorismo ma anche di importanti cambiamenti sociali: “strategia della tensione”. Ma ci domandiamo, a chi giova?
Per fortuna la vera scienza è altro, la vera scienza non ha ancora tutte queste certezze, e per fortuna il dibattito sugli attuali cambiamenti climatici, seppur indirizzato in maniera prevalente verso le cause antropiche, è ancora lungi dall’essere risolto. Ci sono scienziati, e sottolineiamo scienziati, non ciarlatani, che studiano anche le possibili cause naturali di questi cambiamenti, o “cercano ancora” di quantificare i forcing antropogenici e gli effetti diretti ed indiretti sul clima di un aumento dei gas ad effetto serra, nonché di altre sostanze emesse dalle attività umane (aerosol ecc.).
Che fare dunque in mancanza di certezze assolute? Due le considerazioni. La prima che è normale che la scienza moderna non ci offra certezze assolute, e che questa mancanza di certezze non deve giustificare la non azione. La seconda è che esistono una miriade di altre ragioni per virare verso un sistema economico-produttivo e uno stile di vita più rispettoso dell’ambiente e di tutte le altre forme di vita che ci circondano, nonché di quel miliardo di uomini oggi in stato di assoluta povertà, senza necessariamente tirare in ballo i cambiamenti climatici.
Ma qual è, in ultima istanza, la posizione del MeteoGiornale? Il MeteoGiornale ha la fortuna di essere una testata giornalistica – caso raro ormai – non dipendente da alcun potentato politico, economico, o tecnocratico. Si può permettere la piena libertà di espressione, dovendo sottostare solo al giudizio dei propri lettori. E la sua posizione è a favore della scienza, a favore dello sviluppo della conoscenza senza preconcetti, il più possibile senza ingerenze di qualunque sorta, è a favore di qualunque studio scientifico venga sviluppato seguendo principi scientifici, e non, come purtroppo talvolta accade, per altri tipi di interessi. Il MeteoGiornale ha profondo rispetto verso tutti gli studiosi – che crediamo siano la stragrande maggioranza – che fanno ricerca con dedizione e passione, qualsiasi siano le conclusioni dei loro studi; assai meno verso quelli che per interessi personali, di casta o di “padroni”, cercano di sfruttare le occasioni favorevoli che gli si presentano. E probabilmente ce ne sono, nello specifico del tema trattato, sia tra i “serristi” che tra i cosiddetti “scettici” o “negazionisti” (pessimo termine che però indica bene il livello di radicalizzazione dello scontro raggiunto). Fermo restando che queste suddivisioni, in termini rigidamente scientifici, non dovrebbero esistere.
Il MeteoGiornale, sopra tutto, è contro la banalità e l’arroganza. Banalità e arroganza che purtroppo ogni giorno che passa vediamo avanzare nelle forme di comunicazione, guadagnare terreno nella società e finire per condizionare il dibattito climatico. Per questo non ci sentiamo di appartenere ad uno specifico tra i due campi ideologici che si misurano attorno al clima, né di condividerne le aggressive strategie di comunicazione, ma siamo “aperti” e… “non allineati”.