La ricerca è di grandissima importanza per lo studio dei parametri climatici in base ai quali funzionano i modelli di previsione a lunghissimo termine, che escludono il Sole come elemento determinante per il clima (e presentano lacune anche per quanto riguarda la possibile evoluzione della nuvolosità).
Molto si è discusso in passato sulla possibilità che le fasi di attività solare possano intervenire sui raggi cosmici, microparticelle energetiche provenienti dallo spazio, che avrebbero la possibilità di formare nuvole agendo come nuclei di condensazione di vapore acqueo.
Tali nuvole, poi, rifletterebbero la radiazione solare incidente, tendendo così a raffreddare il nostro Pianeta.
E’ ovvio che, durante le esplosioni del Sole nelle sue fasi di grande attività, il picco di vento solare è in grado di spazzare via la maggior parte di questi raggi cosmici in arrivo sulla Terra, e, quindi, diminuendo la possibilità di formazione delle nuvole.
In passato si è molto discusso di questa ipotesi, che non viene presa in considerazione da parte dell’IPCC, in quanto ritenuta non valida o non sufficientemente comprovata.
In un recente studio del noto astrofisico danese Prof. Svensmark, e della sua equipe di scienziati, è dimostrato che, durante le esplosioni solari legate al periodo di attività di un massimo solare, la forte riduzione dei raggi cosmici permette il dissolvimento di almeno il 7% di vapore acqueo presente sulle nuvole oceaniche.
Questo effetto è visibile sulla formazione delle nuvole di basso livello, proprio quelle che maggiormente contribuiscono al raffreddamento solare, respingendo la radiazione solare incidente (le nuvole alte hanno invece un effetto opposto, riflettendo verso la Terra la radiazione infrarossa da essa proveniente).
Tale effetto raggiunge il suo massimo risultato circa dieci giorni dopo il verificarsi di un’esplosione da parte del Sole.
Sono stati esaminate attentamente tre gruppi di immagini satellitari differenti prese nel periodo compreso tra il 2001 ed il 2005, che, anche se piuttosto breve, è riuscito a determinare risultati significativi.
In un gruppo di immagini è stato calcolato un calo del 7% della nuvolosità oceanica (equivalente al dissolvimento di 3 miliardi di tonnellate di acqua liquida!), mentre altri due gruppi ne hanno rilevato un calo pari al 4 ed al 5%, nello strato atmosferico posto al di sotto dei 3200 metri di quota.
Secondo Svensmark, una perdita del 4-5% di nubi sull’Oceano, significa un surplus radiativo di circa 2 watt per metro quadro, che sarebbe un quantitativo sufficiente a spiegare il riscaldamento avvenuto nel XX Secolo, in seguito ad una serie di cicli solari fortissimi.
Infatti, queste diminuzioni di nuvole interessano un periodo di tempo troppo breve per influenzare il clima globale, ma se ripetute moltissime volte all’interno di un ciclo di grande attività, e se tali cicli si protraggono per diversi decenni, la loro influenza diventa tutt’altro che trascurabile, ed in grado di spiegare almeno in parte il riscaldamento recente.
Bibliografia
Svensmark et al. Cosmic ray decreases affect atmospheric aerosols and clouds. Geophysical Research Letters, 2009; 36 (15)
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