Tendenzialmente la domenica è una giornata in cui lo stress del lavoro viene incartato e messo via, gli ingorghi del traffico dei giorni feriali diventano un ricordo e per noi che lavoriamo in città ma viviamo in campagna la pace della festività è un toccasana inimmaginabile.
Sarebbe così se non fosse che alle 8 e 10 squilla il telefono. Incredulità e sgomento sulle facce di tutti noi ma un’idea contorta e sinistra s’insinua nelle pieghe della mia mente:
“Non sarà mica Alvaro?”. Non riesco a finire il pensiero che un urlo disumano riecheggia per la valle intera sollevando zolle di terra e piegando rami d’ulivo:
“A papà è per te, è na donna…na certa Cesira…” Resto folgorato dallo sguardo di mia moglie che già sta pensando a quale attrezzo da campagna scegliere per uccidermi ma la precedo con aria sonnacchiosa:
“E’ la moglie di Alvaro…Alvaro Cacini”. Prendo la cornetta e sento dall’altra parte una voce roca e supplichevole mista ad un pianto sommesso: “Sig. Roberto mi scusi per l’ora ma Alvaro non sta bene, dice cose insensate…può venire da noi al più presto?”. Rispondo di si ma nel frattempo sto cercando una ragione valida da dare a mia moglie per giustificare un’alzata a quest’ora e credo che neanche Perry Mason riuscirebbe a difendermi ma lei già ha capito e annuisce paziente. “Ti preparo la colazione intanto che ti vesti…”. Le dico “Sei grande…” ma il suo ghigno con il quale ringrazia sa tanto di ricatto. Alle 8 e 30 esco e con 20 minuti sto a casa di Alvaro.
Come entro vedo il volto teso ma fiero della sora Cesira che mi indica con lo sguardo la camera da letto. Entro e la prima sensazione è quella di entrare in una cella frigorifera. Sul letto una figura dalle parvenze umane: riesco a vedere solo gli occhi, tutto il resto è sepolto da una valanga di golf, calzettoni di lana, passamontagna. Sull’armadio è acceso un ventilatore che al confronto gli aeratori della galleria del Gran Sasso sono le girandole dei bambini. Davanti alle pale una pila di ghiaccioli. L’aria fredda investe Alvaro che saltella sul letto colpito da questa onda artica. Alle spalle il crocefisso è coperto da una gigantografia del nostro quartiere nell’indimenticabile mattina del 11 febbraio 1986: il quartiere di Cinecittà sotto la neve ossia la neve a Roma ossia una cronicizzazione di ricordi mai sopiti e che in questo periodo con temperature ancora ai limiti dell’estate hanno sicuramente riacceso la voglia mai morta di Roma imbiancata.
“Chiudi sta porta e lasciati cullare da questo soffio gelido, chiudi gli occhi e ritorna a quella mattina di quasi 18 anni fa: coi piedi bagnati, i capelli zuppi e noi in piazza a tirasse le palle de neve alle 7 de mattina: quanto eravamo scemi, vero Robbè?”.
Come fai a non ricordare questa ferita che non si è mai chiusa, sono passati quasi 19 anni ma ancora non cicatrizza.
“Vabbè adesso spegni tutto che se no ti prende una polmonite e vieni in cucina che ci facciamo un bel caffè caldo eppoi basta con questa neve, siamo ancora a metà ottobre…”.
L’odore del caffè inonda tutta la cucina come il ricordo inonda la nostra mente. Penso che a casa da qualche parte dovrei avere ancora qualche ricordo dell’epoca, li cercherò. Alvaro arriva con l’aria sconsolata e bastonata: non servirebbe neanche la notizia di una vittoria della Roma in Champions League a risollevarlo. A quasi 60 anni ancora non si è dato per vinto. Prendiamo il caffè e noto che il viso della Sora Cesira adesso è più rilassato Lo invito a casa per vedere se ritroviamo tutte le altre foto di quel mitico febbraio 86, così passiamo la mattina insieme: ha ripreso i colori, si veste in 20 sec. ed esce di casa urlando alla moglie: “si nun me vedi pe pranzo vuol dire che c’iavemo da fa…”.
Esce di casa guardandomi e fischiettando un motivetto: “…aggiungi un posto a tavola che c’è un amico in più…”. Mitico ed inesauribile Alvaro.