Nel Earth System Science Center della Pennsylvania State University vengono portati avanti studi per ricostruire le attività degli uragani, che in passato si sono sviluppati nell’Oceano Atlantico. Con l’attività di ricerca, Michael Mann, direttore del centro, e i suoi collaboratori (Jeffrey P. Donnelly del Woods Hole Oceanographic Institution, Jonathan D. Woodruff dell’ University of Massachusetts e Zhihua Zhang della Pennsylvania State University) hanno esaminato i campioni di sedimento raccolti sulle coste nord-atlantiche e modelli statistici, ricostruendo l’evoluzione degli uragani negli ultimi 1500 anni.
I campioni di sedimento hanno trovato un buon accordo coi risultati modellistici, evidenziando entrambi un periodo di grande attività degli uragani a cavallo dell’anno 1000, quando le condizioni climatiche, simili a quelle de La Niña, si combinarono con le acque calde tropicali dell’Atlantico. Queste, come sottolinea il professor Mann, sono le condizioni ideali per alti livelli di attività degli uragani. A tale periodo ne seguì uno di relativa quiete.
Durante un El Niño, nei Caraibi c’è maggiore wind shear e si verificano meno uragani. La minore attività degli uragani nell’Atlantico durante questa stagione è dovuta, con molta probabilità, agli effetti mitiganti che El Niño provoca.
L’attività degli uragani sin dalla metà degli anni ’90 ha raggiunto il record storico più alto, ma, in genere, ogni cento anni circa, si può assistere ad un periodo di uragani con entità quasi da record. Secondo il professor Mann è difficile stabilire se il recente aumento delle attività degli uragani sia legato a questa fluttuazione climatica o se invece abbia caratteristiche insolite: i loro studi sono portati avanti proprio per scoprirlo.
Ma come sono state effettuate le ricerche, che hanno permesso di stabilirlo?
Una prima valutazione numerica degli uragani si ottiene con la raccolta e l’analisi dei sedimenti depositati dagli stessi uragani quando raggiungono terra. Sono stati raccolti campioni a Portorico, nel Golfo degli Stati Uniti, nella Mid-Coast Atlantica e nella costa sudorientale del New England, dove il radiocarbonio ha permesso di ricostruire la storia degli uragani e del loro impatto con le terre.
Il secondo metodo invece utilizza un modello statistico, precedentemente sviluppato e basato su variabili climatiche, per predire l’attività degli uragani. Il team di studiosi ha applicato il modello alle ricostruzioni paleoclimatiche della SST dell’Atlantico tropicale, alla storia dell’indice ENSO e al fenomeno climatico periodico della NAO, il quale è correlato con le fluttuazioni del jet stream.
L’ENSO influenza il wind shear e la NAO controlla la traiettoria delle tempeste, attraverso i gradienti barici, determinando se esse incontrano o meno le condizioni favorevoli al loro sviluppo. Ma affinché un uragano si generi, è necessario che le acque oceaniche siano calde.
I risultati delle due metodologie non coincidono perfettamente. I ricercatori non conoscono l’esatta forza di una tempesta che si infrangerà su una spiaggia e i sedimenti che depositerà; sono anche consapevoli che la relazione tra uragani che toccano terra e quelli che agiscono sul mare non è uniforme in tutti i periodi. Dall’analisi dei dati però si pronunciano sul fatto che le principali caratteristiche del picco record medioevale e il successivo periodo di quiete siano un reale e valido aiuto per comprendere il cambiamento dei fattori che, nel lungo termine, influenzano l’attività degli uragani nell’Atlantico.
Un risultato comune alle due procedure evidenzia che lunghi periodi con condizioni di acque oceaniche calde producono una maggiore attività degli uragani. Secondo Mann, i dati paleoclimatici sembrano quindi poter sostenere la tesi, secondo cui l’effetto serra contribuisca ad aumentare la frequenza con cui gli uragani si manifestano.
Michael E. Mann, autore e coordinatore di questo studio, è meglio conosciuto per il suo studio paleoclimatico dell'”hockey stick” , ovvero della ricostruzione delle temperature degli ultimi secoli, attraverso lo studio degli anelli degli alberi, dei ghiacci e dei coralli. Attualmente il suo lavoro è finanziato dalla National Science Foundation e dal Bermuda Institute for Ocean Sciences.