Siamo al confine tra Veneto e Friuli, tra le province di Belluno e Pordenone. Erano le ore 22.39 del 9 OTTOBRE 1963, quando circa 260 milioni di metri cubi di roccia si staccano dal Monte Toc e franano nel lago sottostante in cui si trova il neo bacino idroelettrico della diga del Vajont.
Si formano le prime ondate distruttive che provocano ingenti danni ai paesi di Erto e Casso; un’altra ondata più imponente scavalca la diga e si abbatte sulla valle del Piave distruggendo il paese di Longarone, sicuramente il più colpito dal grande disastro.
Alla fine il bilancio è devastante: quasi 2000 morti (precisamente 1918), due paesi fortemente danneggiati e uno completamente distrutto. Moltissime persone non furono nemmeno ritrovate, rimaste sepolte da strati di acqua e fango.
Paradossalmente la diga, nonostante la frana e l’enorme sollecitazione provocata dall’acqua, rimase pressoché intatta. La valanga di detriti seguì il corso del fiume Piave, arrivando a sfociare pochi giorni dopo sul mare Adriatico.
La costruzione di questa diga sollevò forti polemiche all’epoca e per molti fu un disastro annunciato, sia per l’eccessivo innalzamento del livello delle acque del lago artificiale, ma anche per le caratteristiche geologiche del versante del Monte Toc, noto per la sua franosità.
Tina Merlin, una giornalista locale, sollevò la questione per denunciare i pericoli che avrebbero corso i paesi sulle sponde della diga, una volta che la diga fosse stata messa in funzione. I suoi allarmi vennero messi a tacere, la giornalista fu addirittura denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose”.